6 AGOSTO/9 AGOSTO 1945: HIROSHIMA E NAGASAKI

di Roberta Merighi

Questo articolo avrebbe dovuto essere pubblicato il 6 agosto in occasione della commemorazione della prima atomica, sganciata su Hiroshima. Per un inconveniente tecnico ciò non è avvenuto. Ci teniamo comunque a darne diffusione ora, tanto più per il richiamo, allora involontario, all’attuale situazione Afghana.

«Baby is born» sono le parole con cui fu annunciato a Truman il successo dell’esperimento nucleare effettuato il 16 luglio del 1945 nel poligono di Alamogordo, nel New Mexico. La bomba atomica era nata.

Pochi giorni dopo, il 6 agosto, una prima bomba atomica soprannominata Little Boy fu scaricata su Hiroshima da Enola Gay, un aereo B29 battezzato così dal suo pilota col nome della madre.

Il 9 agosto una seconda bomba atomica, soprannominata questa volta Fat Man, venne sganciata sulla città di Nagasaki.

«Baby» di Truman, nelle sue due “versioni” Little Boy e Fat Man, portò sulle due città giapponesi distruzione e morte, morte subitanea e morte differita nel tempo e dolorosa per le ferite laceranti lasciate dall’esplosione sui corpi della maggior parte dei sopravvissuti.

Due fiammate che la storia non potrà e non dovrà dimenticare.

Nel suo libro Psicoanalisi della guerra (1966) Franco Fornari, soffermandosi proprio sui nomi conferiti alle bombe e all’aereo di Hiroshima, ci dice: «La verità è che l’esperienza clinica insegna che quando una realtà distruttiva viene coperta da simboli d’amore esiste la possibilità che ciò costituisca una operazione destinata a coprire profonde angosce depressive o persecutive e che tale occultamento abbia in sé grande possibilità di predisporre colui che lo fa a distorsioni gravi nell’esame di realtà e quindi a non trovarsi nelle condizioni di poter prevedere correttamente le conseguenze possibili dei suoi atti».

Questo brano presente nell’incipit del libro mi colpì molto quando lo lessi, ormai decenni fa. È rimasto stampato nella mia memoria e in anni più recenti mi è ritornato alla mente e mi ha fatto riflettere sul fatto che nell’era della globalizzazione, le guerre in corso sono raccontate sempre ammantate di nobili intenzioni.

Sono guerre umanitarie, per esportare la democrazia, per liberare le donne dal burqa, per affermare i diritti umani, per la sicurezza globale, per un nuovo ordine mondiale di pace. In realtà portano gravi distruzioni di vite umane, di beni anche ambientali, povertà per generazioni, in ben particolari aree del mondo. Colpiscono soprattutto le nuove generazioni cui queste guerre rischiano di togliere il futuro. E nella più completa asimmetria delle forze in campo. Se queste “nobili motivazioni” sono portate avanti in forme belliche distruttive anche nei confronti di coloro che si vogliono “liberare”, la lezione di Fornari torna d’attualità.

Le guerre nella storia sono state infiammate da molteplici, manifesti motivi: economici, politici, demografici, espansionistici, razziali, ideologici. La psicoanalisi li riconosce, ma pensa che ognuno di essi costituisca «una verità parziale».

Molto sinteticamente, secondo la teoria polemologica di Fornari la guerra è una «organizzazione di sicurezza» un’istituzione sociale cui viene assegnato il compito di difenderci da entità fantasmatiche interiori persecutive, il «Terrificante» che è in noi, attraverso l’individuazione di nemici reali esterni. Una organizzazione che ci offre “il cattivo” da distruggere perché possiamo distruggere, illusoriamente, le nostre angosce depressive. In questo modo ci difende dalla paura che possiamo rivolgere i nostri attacchi distruttivi verso ciò che amiamo: vogliamo credere che sia il nemico in guerra, su cui proiettiamo le parti cattive del nostro Sé che vogliamo alienare, il vero distruttore del nostro oggetto d’amore.

La guerra come difesa non da un nemico reale, ma interno, ci fa comprendere, secondo l’autore, come questa istituzione abbia potuto prosperare e sopravvivere in ogni epoca e nelle diverse condizioni sociali, politiche ed economiche. E prosperi tuttora.

La guerra come «deflessione all’esterno dell’istinto di morte», secondo Freud, il quale, riflettendo, allo scoppio del primo conflitto mondiale, sulla «delusione della guerra» in quanto espressione di una regressione sulla via dell’incivilimento («Quel che vi è di primitivo nella psiche è veramente imperituro»), rileva che molti individui vivono nella società al di sopra delle loro capacità psicologiche di controllo degli istinti aggressivi e autodistruttivi. La guerra è un sistema legale di liberarli e lo Stato in guerra detiene il monopolio della violenza e dell’ingiustizia che non tollererebbe dal singolo in tempi di pace.

Se il processo di incivilimento era stato dal padre della psicoanalisi considerato fonte di repressione dell’individuo, ora egli sembra fare appello a questo processo per evitare la distruttività della guerra.

Poi Freud si sofferma e si interroga sull’incapacità dell’uomo di pensare e accettare l’idea della propria morte e sul bisogno di alienare il pensiero di questa da sé. Come ovviare alla guerra intesa come alienazione del pensiero della morte da sé, se non accettando il pensiero di non essere immortali? E, parafrasando la famosa frase latina «si vis pacem para bellum», ci ammonisce: «si vis vitam para mortem», “se vuoi poter sopportare la vita disponiti ad accettare la morte”.

Freud chiuse il suo saggio Il disagio nella civiltà con parole che potremmo considerare profetiche: «Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo».

La nascita della bomba atomica ci ha portato, oggi, dentro uno scenario di guerra potenzialmente pantoclastica. La situazione atomica realizzerebbe, cioè, una sorta di Mors tua, mors mea, la distruzione simultanea del nemico e dell’amico e «porterebbe ad una situazione di omologazione della guerra ad un attacco distruttivo verso ciò che si ama, cioè verso ciò che ci fa vivere». (Fornari, Simbolo e Codice, 1976).

La guerra stessa simbolo dell’illusione di sopravvivere dando la morte «ci porterà a perire e a far perire il mondo intero».

E ancora in Psicanalisi della situazione atomica ci dice: «Tutti vorremmo vivere raccontandoci questa favola [di S. Giorgio e il drago nda]: ma da che sono arrivate le bombe atomiche non è più di buon gusto raccontare le favole dei cavalieri: l’arma con la quale il cavaliere vuole uccidere il mostro diventa essa stessa il mostro che distrugge la vergine invece di salvarla».

«Sapremo aver tanto coraggio da capire che l’eroe e il mostro sono la stessa cosa

Invece, la corsa agli armamenti nucleari ha avuto pochi momenti di stasi dal suo inizio.

È notizia di pochi mesi fa che la US Army sta approntando una task force composta di missili supersonici armati sia di testate convenzionali che nucleari, da puntare sulla Russia e da collocare nel Pacifico, contro Cina e Corea del Nord. Cioè contro i nemici storici degli Stati Uniti, l’esternalizzazione del loro Terrificante. Ma la tecnica dell’escalation militare di questi sedicenti defensor pacis non è una tecnica dissuasoria, al contrario. Come in una sorta di potlàch(1) pericoloso e funesto sarà poi la Russia a rispondere a questo programma con un’analoga dotazione e poi sarà la volta della Cina… e così via.

Poiché questi missili sono in grado di raggiungere Mosca in 5’, ma Mosca non può raggiungere Washington… con tutta probabilità le risposte armate cadranno, in prima battuta, sulle nostre teste dato che le testate nucleari americane sono stoccate sul nostro territorio a Ghedi e Aviano. Ancora più grave è che questi missili sono affidati a una intelligenza artificiale, aumentando di gran lunga la possibilità di una guerra per errore.

Allora è probabile che, dopo una guerra nucleare con armi così sofisticate, non godremo più di un Kubrick che ci racconti dei nostri nuovi «dottor Stranamore».

NOTE

(1) Potlàch, rito praticato dai Nativi americani della costa nord-occidentale di Usa e Canada basato sulla offerta di doni ricchi o sulla distruzione ostentata di beni per affermare la superiorità del proprio rango nei confronti di altre tribù o famiglie. Chi era oggetto di questa cerimonia doveva a sua volta corrispondere con ancor maggiore magnificenza sia nell’offerta di doni che nella distruzione di propri beni per riaffermare a sua volta il proprio status. (Vedi: Ruth Benedict, Modelli di cultura)

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