LEZIONI AMERICANE, TRA POLITICA E PSICOPATOLOGIA

Una breve storia per punti

di Maurizio Marzari

  1. Partiamo da Obama. Dalla sorpresa di Obama. Venivamo dagli 8 anni di Bush, pieni di nemici veri e inventati, di armi e guerre, vere e inventate, di eccezionalismo americano ed esportazione della democrazia a ogni costo: un tempo nostalgico, fatto di relazioni verticali, di apologie del cameratismo, dell’eroe di guerra, di esibizione e compiacimento nei valori della destra: dio-patria-e-famiglia.
    Come spesso accade, non solo al di là dell’Oceano, sotto traccia si stava muovendo un movimento culturale allora non rappresentato, che Obama riuscì a portare alla luce con orgoglio ed entusiasmo: il bisogno di andare oltre il culto del primato americano, degli Usa come gendarme del mondo, di occuparsi dei conflitti interni ignorati o soffocati dal potere repubblicano. Obama sarà il portatore di una visione più europea, più colta, più sfumata, ma anche di una radicalità sulle questioni sociali, sull’antirazzismo, sull’inclusione, sul diritto alla salute.
    Dal codice paterno si passa a quello fraterno, dal verticale all’orizzontale, dall’istruzione paternalistica alla costruzione partecipativa. Un salto netto e inatteso dalla gerarchia alla diffusione del potere, dal maschile al femminile.
  2. Siamo nel 2015, questa fase sta giungendo al termine, e i due partiti provano entrambi a reagire guardando al passato: un altro Bush da una parte, un’altra Clinton dall’altra. Come se Obama non ci fosse stato. Come se nel frattempo il fiume carsico, il magma dell’insoddisfazione contro il potere non avessero scavato profonde gallerie, creato inquietanti escrescenze, urlato un bisogno di cambiamento. Trump arriva come un ridicolo carroarmato da sfilata carnevalesca a sfidare il paludato universo politico americano. Era partito dal birtherismo (la teoria secondo cui Obama non era americano perché nato in Africa), poi si era erto a paladino del politicamente scorretto, sdoganando qualsiasi invettiva contro chiunque, soprattutto i più deboli, dileggiando i disabili, gli immigrati stupratori, i prigionieri di guerra e i caduti come losers…e le donne che non accettano il loro destino di suppellettili del machismo, di ornamento se non di commodity.
    Arriva al potere, anche lui, tra la sorpresa generale, riuscendo a incanalare dietro alla propria patologia narcisistica tutto quello che non aveva voce se non sui social media: il livore razzista e antisemita, i suprematisti bianchi e i neonazi, l’antifemminismo e l’anti-intellettualismo, legittimando insieme oltranzismo religioso, diritto incontrollato all’uso delle armi, libertà di inquinare e omofobia. E disfando una dopo l’altra, con sistematica perseveranza, tutte le acquisizioni del suo predecessore. Credo ci sia stato un momento in cui Trump ha realizzando, sorprendendosi egli stesso, che i suoi deliri narcisistici diventavano oggetto di culto, che le sue furbizie da banditore d’asta televisiva venivano credute e riprodotte a ogni livello, che il suo sadismo sempre più esibito (sui deboli, sugli isolati, sui non yesmen) rappresentava la pernacchia liberatoria di milioni di seguaci. E qui la folla è entrata in corto circuito col suo leader: non si capisce più chi abbia diretto chi, in un movimento psicotico di fuga dalla realtà che è spesso lo stadio finale del narcisismo patologico, e che nella fattispecie si alimenta di un triste movimento a spirale, teorie complottiste e cospirazioni, paranoie e deliri messianici.
  3. Arriviamo alle ultime elezioni. C’è la pandemia che cambia le carte in tavola. C’è bisogno di responsabilità, di rassicurazione, di centralità della scienza, di un noi. Il trumpismo è tutt’altro: io al centro, ognuno si deve arrangiare, la scienza è finzione e potere marcio. E va tutto a catafascio: l’America è tutt’altro che il faro in questa tragedia, è anzi un fardello, la morte di una garanzia, l’attacco all’idea di un impegno comune. Biden vince per questo: non è il ritorno agli anni di Obama, nonostante ne sia parte integrante e nel suo governo si ripropongano in parte quegli anni. Biden è tregua, senilità, il codice del nonno, non quello fraterno. Ma è un ritorno alla realtà, alle fatiche della maturità, al dover rimboccarsi le maniche: o ce la facciamo insieme o precipitiamo tutti. L’etica del sociale contro l’onnipotenza dell’Io. Un rimedio senile sul precipizio della psicosi .
  4. L’immagine con cui voglio chiudere queste riflessioni è quella di Trump, dietro uno schermo di vetro antiproiettile, davanti alla folla che ha chiamato a Washington a testimoniare che la realtà non esiste, che si può girare come vuoi, che le elezioni sono truccate, che anche se non c’è una sola prova «noi lo sappiamo che è tutto falso». E allora «andate e assaltate i palazzi del potere, seguitemi e imporremo la nostra verità». E la folla, convinta per 4 anni di aver trovato il suo messia, colui che metterà fine alla setta dei pedofili democratici denunciati da QAnon, colui che riporterà l’America alla sua bianca grandezza originaria, e darà potere a chi non ha studiato e detesta chi lo ha fatto, quella folla si scatena verso il Congresso, cerca di assalirlo neanche fosse il Palazzo d’Inverno, inscena una triste, orribile, tragica farsa.
    E lui si gira dall’altra parte e fugge via. Li lascia lì, soli, sbandati, senza comandante.
    La disgustosa incapacità di adesione del narcisista, la sua assenza di coraggio, la sua indifferenza ai valori, la sua immoralità come vessillo.

L’America si trova qui, a un bivio triste ma inevitabile: tra una grave patologia sociale e il buon senso senile. La seconda strada, per ora, ci appare come un fulgido e inatteso sentiero di speranza.

Ma le contraddizioni trumpiane non se ne andranno per molto tempo. Sarà meglio che noi europei (noi italiani in particolare, col nostro ethos anarco-individualista, incline al culto dei narcisisti patologici) impariamo in fretta la lezione. Forse non ci resta molto tempo per evitare, come spesso nella storia, di cercare un’altra volta di essere una brutta copia dell’America.

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