NOTA POLITICA – LA FAME

di Mattia Macchiavelli

Interpretare un panorama politico così variegato e ancora, per molti versi, irrisolto è più un lavoro da cassandre che da analisti. Il Presidente della Repubblica ha contribuito a smuovere il magma dei partiti, stanandone, non senza arguzia, le retrovie ed esponendo la carne viva dei giochi sottobanco. L’azione di Mattarella, tuttavia, non è riuscita a cristallizzare in alcuna forma limpida queste forze elettorali. Ciò è accaduto perché nessuna delle formazioni che si sono presentate alle elezioni ha fatto realmente i conti con l’astensionismo e i suoi significati, così come poche si sono interrogate circa le proprie identità politiche. Un’indagine che, al contrario, dovrebbe essere radicale.

Una prima interessante suggestione, in questo senso, proviene dallo sgretolamento delle sinistre.

Le percentuali del Partito Democratico (PD) piombano al 18,72% alla Camera e al 19,12% al Senato, rendendolo comunque il secondo partito più votato dalle elettrici e dagli elettori del nostro Paese. Questo deve porci almeno due domande: quale peso specifico ha il PD nell’orizzonte politico italiano? Cosa ha portato a un calo così consistente di voti, dato che si partiva da percentuali del 25,42% alla Camera e del 27,43% al Senato?

Il primo interrogativo è complesso e, in maniera molto ingenua, si potrebbe essere tentati di fornire una risposta psico-geografica: il PD continua a essere, nonostante tutto, quel contenitore a cui si rivolge chi scruta l’orizzonte verso sinistra. Voltando la testa da quel lato, infatti, è sicuramente il primo partito che ci si para di fronte: che questo sia proprio o improprio, lo lascio giudicare ad altri.
Questo dato potrebbe suggerirci che di sinistra, in questo paese, c’è ancora voglia. Cosa sia questa sinistra, tuttavia, non è dato saperlo.

Per ciò che concerne la seconda domanda, sono convinto che il PD paghi il prezzo di un quadruplice debito nei confronti di chi si è, fino a ora, riconosciuto nel perimetro politico di questa sinistra.

In primo luogo, il PD sconta la responsabilità di governo – questione di per sé non negativa ma di difficile decodifica – che lo ha portato ad assumere sulle spalle della propria maggioranza parlamentare il peso di tre esecutivi: Letta, Renzi e Gentiloni. Governi dai confini politici ampi, imbastarditi, in cui le linee identitarie tra forze progressiste e impulsi conservatori non solo erano adiacenti ma spesso confuse, opache, mescolate.

Questa riflessione introduce il secondo, salato, conto che l’elettorato di sinistra – se ancora ha senso parlare di un elettorato di sinistra, o di sinistra tout court – ha chiesto di saldare: la conferma di un’identità non chiara. L’alleanza elettorale con partiti come Civica Popolare od operazioni come la candidatura di Pier Ferdinando Casini a Bologna, hanno confermato la tendenza del PD a non voler porre una parola chiarificatrice circa la propria identità politica; scelte che hanno mantenuto il partito in quel limbo apolide in odio a chi ha disperato bisogno di casa. Una casa politica. Luminosa, limpida, dai colori ben definiti e non ammobiliata con un’infinita gamma di grigi. Il PD ha scelto per se stesso il grigio del non essere, di voler diventare un po’ questo e un po’ quello, il grigio del centrismo.
Scegliere di farsi un po’ destra, un po’ conservazione e un po’ reazione ha messo in allarme chi già aveva visto con sospetto i compromessi a ribasso fatti nella precedente legislatura. Pensiamo alla legge sulle unioni civili e a quella sul testamento biologico, per esempio, grandi conquiste di civiltà annacquate od ostacolate proprio da quelle Lorenzin e da quei Casini.

Un terzo scotto pagato dal PD in questa tornata elettorale è stata l’implosione del sistema partito. L’inattività della segreteria Renzi ha svuotato, in prima battuta, i circoli territoriali e le sezioni, traslocando la politica dalle periferie fangose della realtà all’asettico iperuranio delle segrete stanze. Dopodiché, in tempi più recenti, si è assistito allo svolgersi di un congresso dai profili inquietanti, in cui vecchie logiche di potere e di conservazione del potere hanno fagocitato l’intero partito. Renzi non si è inventato nulla, questo va detto, ha semplicemente portato all’apogeo un processo che gli preesisteva, di cui probabilmente è figlio. Renzi, per farla breve, da stella verace del conflitto positivo, da campione del rinnovamento della vetusta classe dirigente si è trasformato in neo-vetusta classe dirigente. Dopo aver stappato il partito dalla chiusura ermetica, dal monolito della ditta di bersaniana memoria, egli si è fatto nuovo tappo, bloccando quel fiume carsico di energie positive che scorre – nonostante tutto – nel ventre oscuro dello stesso PD. L’antitesi che si fa nuova tesi, direbbero i nostalgici.

Infine, i metodi di selezione dell’intera classe dirigente, parlamentare e non. Chi ha scelto chi? In base a quali criteri? Domande decisive. Il PD, ai suoi albori, si era fatto partito del metodo, capace di darsi regole per disciplinare la vita politica degli iscritti e delle iscritte: le primarie, il vincolo del doppio mandato, uno statuto a modo suo all’avanguardia, un sistema di pesi e contrappesi. Tutte regole non perfette ma perfettibili. Tutte regole sistematicamente disattese.
Siamo di fronte a un errore ontologico: in un’Italia berlusconizzata nel merito e nel metodo, un partito come il PD non può permettersi di tradire le regole che indirizzano la vita politica dei propri appartenenti, affogandole in un oceano di deroghe e di cattive pratiche. Pena l’annullamento di se stesso.

Da questo processo di sistematica autodistruzione è emerso un PD debole, infiacchito da se stesso, del tutto incapace di riconoscere e accogliere le sfide di questa contemporaneità. Un grave problema per l’Italia, orfana di un contenitore in grado di farsi forza promotrice di istanze progressiste – da sempre il pungolo della messa in discussione dello status quo.

E a sinistra del PD?

Un triste conclave di eleganti signori (il maschile non è casuale), imprigionati nella spirale di un eterno ritorno dell’eguale. Da questo consesso senza capo né coda ne esce dignitosamente solo Potere al Popolo: guidato da Viola Garofalo – e nonostante tutti gli anacronismi – riesce a ottenere poco più dell’ 1% in una manciata di mesi dalla sua formazione. Una percentuale irrilevante per la scena pubblica ma utile nella prospettiva della nostra analisi: è un ulteriore sintomo di quella richiesta, pressante, di identità. Quella stessa richiesta che Lega e MoVimento 5 stelle sono riusciti, in un qualche modo, a intercettare (ma di questo scriveremo nelle prossime note politiche).

Sono convinto che ampia responsabilità dell’attuale e inquietante situazione politico-istituzionale sia da imputare proprio alle sinistre: rinunciando alle proprie anime, fuggendo al liquido rigore delle definizioni, hanno lasciato campo libero alle destre e al MoVimento 5 stelle, permettendo loro di banchettare con le istituzioni. Anche di questo si dovrà chiedere conto, nell’immediato futuro.
Le italiane e gli italiani sono affamati, hanno una fame d’identità che è totale e totalizzante, la voglia di sapori forti, decisi, corposi: un impulso primario difficilmente imbrigliabile nella dieta insipida del compromesso strumentale. Dirimente sarà il chi riuscirà a intercettare questa pulsione e il come saprà governarla.

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