Angelo Errani continua ad accompagnarci alla scoperta dei momenti e delle fasi cruciali di una corretta relazione educativa. In questa puntata approfondiamo in concetto di responsabilità, che è fondamentale coltivare nella realtà in cui viviamo.
di Angelo Errani
Le caratteristiche della cultura in cui siamo immersi e la complessità che caratterizza il presente ci fanno comprendere che, per chi sta crescendo, è divenuto ancora più importante rispetto al passato disporre di strumenti culturali che offrano la possibilità di capire e di agire criticamente nella realtà in cui ci è dato di vivere. La contemporaneità ci impone inoltre un’estensione della responsabilità. Mentre nel passato la responsabilità poteva limitarsi alle relazioni umane, oggi abbiamo la necessità di andare oltre: l’intera biosfera rivendica infatti la sua parte di attenzione e di cura. La globalizzazione ha messo in luce la complessità che caratterizza tutti gli aspetti dell’esistenza. Convenzionalmente attribuiamo alla parola complessità il significato di complicato, di difficile comprensione, mentre complexus, da cui deriva il termine italiano complessità, è una parola latina che significa intrecciato, tessuto insieme. La parola complessità sta dunque a indicare la relazione che intreccia indissolubilmente tutte le cose e tutti gli esseri, ci avverte dell’inevitabile ricaduta delle conseguenze dell’agire di ognuno sugli altri, sottolinea la necessità di ciascuno per la vita degli altri. Abbiamo di conseguenza la responsabilità di adeguare conoscenze, comportamenti e strumenti alle necessità del tempo in cui ci è dato di vivere.
La separazione fra mente e natura ha caratterizzato il pensiero della modernità. Un pensiero tutto impegnato a osservare e a classificare e che ci restituisce un’immagine del mondo come quella di una collezione, l’immagine di un mondo prevedibile e semplificato, che ignora le relazioni e in cui il punto di vista di chi osserva è sempre interno al sistema osservato(1). Ma il mondo insiste a dimostrarsi complesso, cose e fenomeni sono immersi nelle relazioni e sono collegati ai diversi contesti. Non esiste un organismo isolato, ma sempre e solo un organismo più il suo ambiente. Il mondo è un tessuto unitario di organismi diversi che sono in una relazione di reciprocità, dove ciascuno è necessario all’altro. C’è un sostanziale accordo fra gli studiosi della contemporaneità nel definire la società attuale “società della conoscenza”.
«[…] la conoscenza è condizione di affermazione o di esclusione sociale e personale e in cui i possessori e gli utilizzatori della conoscenza hanno titolo di far la parte del leone»(2).
Il rischio di esclusione di chi non ha voce è stato il riferimento guida dell’appassionato impegno educativo che don Lorenzo Milani ha dedicato a chi, vivendo una condizione di svantaggio, era destinato all’inferiorità culturale e sociale.
«Perché è solo la lingua che fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli»(3).
Per i bambini, in particolare per i tanti la cui identità comprende un deficit o la cui storia richiama aspetti di fragilità dovuti a condizioni sociali o culturali deprivate, il rischio di una crescente disuguaglianza delle possibilità di realizzazione è molto serio. La mancata compensazione delle opportunità educative comporta infatti inevitabilmente il rischio di marginalità ed esclusione.
Ma, aggiunge Lorenzo Milani, anche chi non vive condizioni di svantaggio non è immune da rischi, perché:
«La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessuno, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola. Una scuola che seleziona distrugge la cultura: ai poveri toglie il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose»(4).
Il cardinal Carlo Maria Martini osservava che don Milani scriveva Parola con l’iniziale maiuscola. La parola infatti non è uno strumento qualsiasi che non impegna chi la dice e non serve a chi l’ascolta. Possedere la parola, coltivare il sospetto come motivazione per la ricerca, allenare il pensiero attraverso il confronto con gli altri, scoprire il piacere dello studio per conquistare nuove conoscenze, rifiutare l’ingiustizia non sono forse riferimenti per una vita migliore per tutti?
Possedere la parola stabilisce la differenza fra chi, incontrando un problema, possiede gli strumenti per cercare una soluzione e chi invece non dispone degli strumenti per affrontarlo e, spesso, neppure per riconoscerlo. Possedere la parola è la condizione indispensabile affinché una differenza non si traduca in una disuguaglianza.
Il 28 marzo 1956 Lorenzo Milani scriveva ad Ettore Bernabei, direttore del Giornale del Mattino:
«Caro direttore,
il tuo giornale si prende spesso a cuore le sofferenze dei disoccupati e dei senzatetto e te ne siamo grati. Tetto e pane sono fra i beni massimi. Mancarne è dunque una delle massime miserie: C’è dei beni che sono maggiori del pane e della casa e il mancare di questi beni è miseria più profonda che il mancare di pane e di casa. Questo tipo di beni chiamerò ora, per comodità di discorso, istruzione. Ma vorrei che tu prendessi questa parola in senso più largo, comprensivo di tutto ciò che è elevazione […]. Le conseguenze dei dislivelli culturali sono gravissime […]. Mi basti accennarti che su chi sa meno gioca bene il propagandista politico, il commerciante, l’imprenditore, la Confindustria, il corruttore. Ma ti risparmio il quadro doloroso di questa che è la miseria più grave dei miseri e che riassume tutte le altre loro miserie, perché suppongo che tu ne sia già compreso da tempo […].
Cosa volete dunque sapere della vita all’infuori del ristretto cerchio di casa vostra o di quello dei libri che leggete e vi ingannano perché di solito li ha scritti gente isolata nel guscio come voi? Tutto questo discorso per concludere che è da presumersi che per esempio un boscaiolo di venti anni sia ricco di cognizioni e di una visione del mondo pari a quella di un universitario di venti anni. Non voglio dire eguale, ma equivalente si. Più ricca da una parte, più povera da un’altra. In conclusione: certo non inferiore. […] Forse fra le cognizioni c’è una gerarchia di valori? Alcune nobili e utili; altre ignobili e vane. […] Ma quella gerarchia non esiste. Il sapere è nobile sempre, quando è conoscenza del creato di Dio.
Io sono sicuro dunque che la differenza fra il mio figliolo e il vostro non è nella qualità del tesoro chiuso dentro la mente e il cuore, ma in qualcosa che è sulla soglia fra il dentro e il fuori, anzi è la soglia stessa: la Parola.
I tesori dei vostri figlioli si espandono liberamente da quella finestra spalancata. I tesori dei miei sono murati dentro per sempre isteriliti. Ciò che manca ai miei è dunque solo questo: il dominio della parola: sulla parola altrui per afferrarne l’intima essenza ed i confini precisi, sulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradimenti le infinite ricchezze che la mente racchiude.
Sono otto anni che faccio scuola ai contadini e agli operai e ho lasciato ormai quasi tutte le altre materie. Non faccio più che lingua e lingue. Mi richiamo dieci venti volte per sera alle etimologie. Mi fermo sulle parole, gliele seziono, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi.
Nei primi anni i giovani non ne vogliono sapere di questo lavoro perché non ne afferrano subito l’utilità pratica. Poi pian piano assaggiano le prime gioie. La parola è la chiave fatata che apre ogni porta. L’uno se ne accorge affrontando il libro per la patente. L’altro fra le righe del giornale del suo partito. Un terzo si è buttato sui romanzi russi e li intende. Ognuno di loro si è accorto poi sulla piazza del paese e nel bar dove il dottore discute col farmacista pieni di boria: delle loro parole oggi afferra il valore e ogni sfumatura. S’accorge solo ora che esprimono un pensiero, che non vale poi tanto quanto valeva ieri, anzi pochino. I più arditi hanno provato a metterci bocca. Cominciano ad inchiodare il chiacchierone sulle parole che ha detto.
“Parole come personaggi” si chiama una tua rubrica. Ecco questo è appunto il mio ideale sociale. Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante, del fattore sarà spezzata.
Una utopia? No e te lo spiego con un esempio.
Un medico oggi quando parla con un ingegnere o con un avvocato discute da pari a pari. Ma questo non perché ne sappia quanto loro di ingegneria e di diritto. Parla da pari a pari perché ha in comune con loro il dominio della parola. Ebbene a questa parità si può portare l’operaio e il contadino senza che la società vada a rotoli. Ci sarà sempre l’operaio e l’ingegnere, non c’è rimedio. Ma questo non comporta affatto che si perpetui l’ingiustizia di oggi per cui l’ingegnere debba essere più uomo dell’operaio (chiamo uomo chi è padrone della lingua). Questo non fa parte delle necessità professionali, ma delle necessità di vita di ogni uomo, dal primo all’ultimo che si vuol dire uomo […]»(5).
La parola costruisce appartenenza, conferisce autostima, offre significato all’esperienza. E la cura delle condizioni per possedere la parola è il percorso che accompagna l’umanizzazione della nostra specie. Agli esordi della nostra vita le parole non sono altro che suoni che progressivamente assumeranno, secondo procedimenti logici del pensiero, un significato e un collegamento con il reale. Ma, per diventare nostre, e non essendo nate con noi, dato che hanno alle spalle una lunga storia, le parole richiedono di venire interrogate. Educare i bambini a possedere la parola significa accompagnarli nella ricerca delle etimologie, dei neologismi, per dare un nome alle cose, che così possono uscire dal buio e diventare conoscibili. Per sviluppare dialettica e senso critico occorre poi accompagnarli a prendere per mano gli argomenti, smontarli e rimontarli, farsi domande e scegliere, attraverso il confronto con gli altri, le risposte che appariranno maggiormente utili per progettare un agire attento alla legalità e alla giustizia. Non c’è conoscenza senza sguardo critico, cioè senza l’esercizio del dubbio e del confronto.
NOTE:
1. G. Bateson (1979), trad.it. (1984), Mente e Natura. Un’unità necessaria, Milano, Adelphi.
2. Z. Bauman (2012), Conversazioni sull’educazione, Trento, Erickson, p.74.
3. Scuola di Barbiana (1967), Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, p. 96.
4. Scuola di Barbiana (1967), ibid. p. 105.
5. L. Milani, Lettera al direttore del Giornale del mattino, San Donato di Calenzano, (FI), 28 marzo 1956.