DIARIO DI BORDO – QUINTA SETTIMANA

William Turner, la visione di Medea

BOLOGNA, 09/04/2020
DIARIO DI BORDO N°11

Oggi è un mese esatto che non esco di casa. Completamente. Non ho messo il naso fuori nemmeno per andare a vuotare il rusco. Forse perché le cose o le faccio per bene o non le faccio. Forse sono pazzo. Rosalba direbbe che sono della Vergine. Oppure è perché, se mettessi un piede fuori dal portone e facessi quei due scalini che portano al marciapiede, saprei che riportarlo dentro mi costerebbe il doppio della fatica. O è perché sono un animale da poltrona e quindi non mi costa così tanta fatica. È anche cambiata il giusto la mia routine: il 9 marzo avrei dovuto avere 3 riunioni, domani ne avrò 2; il mese scorso ero pieno di scadenze, questo mese sono pieno di scadenze; ieri ero inquieto, oggi sono inquieto.
Sto ascoltando quasi ogni giorno Gabbiano, di Giuni Russo. Mi ero messo ad ascoltare tutta la sua discografia durante i miei viaggi in macchina, per inserire le canzoni che preferisco nella mia playlist su Spotify. È stato Leonardo, una sera, dopo il mio ennesimo consiglio musicale non richiesto, a dirmi «No ma devi fare la playlist di Core», forse per sfinimento. Così ho fatto, seguendo il mio disturbo ossessivo complessivo di natura hegeliana, che mi spinge a cominciare le cose dall’inizio per poi arrivare alla fine, passo dopo passo. Allora ho cominciato a battezzare artisti e ascoltarne interamente la discografia, o opere, o musical e ascoltarne tutti i brani. Per ora, nell’ordine, ci sono finiti dentro: qualche canzone da Coco, Milva, un paio di brani da Wiked, Alice, gli ABBA, Mahmood, Gene Pitney, Ambra Angiolini, MYSS KETA, Tosca, Lady Gaga e ho cominciato Giuni Russo, per l’appunto.  Il fatto che sia praticamente un mese che non ascolto Dolly Parton mi fa sentire in colpa, soprattutto dopo la morte di Kenny Rogers; penso rimedierò. Mi manca molto il canto, credo sarà una di quelle cose che riprenderò una volta finita la clausura: mi manca il rigore di note che non prendo, la costanza di un esercizio che è fisico e che è mentale in egual misura. Mi manca anche Ginevra. Spero che questo stop che ci scombina tutti, fuori e dentro, sia talmente potente da spronarmi a riprendere sul serio, non come tutte le altre volte, perché alla fine me lo riprometto da anni.

Credo che Gabbiano sia un potente inno di libertà e forse per questo la ascolto così tanto, perché mi basta, perché me la faccio bastare. Come un placebo. Perché, alla fine, se davvero uscissi per vuotare il pattume, mi metterei le scarpe da trekking e studierei un piano diabolico per arrivare fino a Casalecchio, magari sfruttando la rete dei canali sotterranei. Bologna città d’acqua. Perché, alla fine, è da un mese che non vedo Filippo e la Blue e questo cambia tutto: è l’unica cosa che conta. 

BOLOGNA, 11/04/2020
DIARIO DI BORDO N°12

Scrivevo di quanto l’«assurdo romanzo del potere» fosse una delle cose che più mi desse inquietudine in questo momento. In quel precedente diario di bordo legavo questa istanza alla situazione delle persone detenute nelle carceri, già disumanizzate pre-pandemia, ora relegate al rango più basso della vita animale da un’opinione pubblica sempre più violenta. Anche oggi quell’inquietudine non passa, soprattutto se penso a Giuseppe Conte. “Giuseppe Conte” sono un nome e un cognome che utilizzo per sintetizzare un’intera classe dirigente e un’intera opinione pubblica a essa connessa. Leggevo che la fiducia nel premier è cresciuta di più di venti punti percentuali in questo periodo e la statistica ci insegna come sia un fenomeno ormai consolidato nei momenti di crisi. Nel nostro paese penso sia anche il sintomo di un virus antico – ben più pericoloso del Covid-19 –, il morbo della ricerca spasmodica dell’uomo forte, di quello che ci governa con pugno saldo, del leader carismatico, testosteronico, che ci ricordi di quando i treni arrivavano in orario e di come sia virile bonificare le paludi. Di questa attrazione erotica non ci siamo mai liberati ed è anche a tale passione che dobbiamo il ventennio berlusconiano, l’ammirazione per quel #enricostaisereno, gli orgasmi che accompagnavano ogni espulsione operata da Grillo nel M5s: finalmente il potere con le palle che non le manda a dire e quanto ci piace il potere con le palle. Per me è lo stesso meccanismo che si è attivato ieri, quando Conte ha pronunciato, come in un incantesimo, i nomi di Salvini e Meloni in quello che più che un discorso alla nazione sembrava una seduta dal suo analista. Giuseppe Conte, uno a cui si possono applicare tutti i dettami della Fenomenologia di Mike Buongiorno, che avrebbe dovuto essere ministro senza portafoglio della pubblica amministrazione del governo Di Maio, scelto come presidente del consiglio da Lega e M5s perché era la personalità meno complessa da gestire, quella che meglio poteva stenografare un contratto tra due partiti controfirmato da un notaio. Una barzelletta istituzionale che non fa ridere solo perché è l’ennesimo passo verso la dissoluzione delle liturgie democratiche di un’Italia che forse alla democrazia è pure un po’ allergica. Ecco, io pensavo questo prima della pandemia e lo penso ora. Anche io, ieri, ho provato un brivido di piacere a quel «questo governo non lavora col favore delle tenebre» e al corollario magico di nomi e accuse; un piacere che mi spaventa. Il perché lo scrive Enrico Mentana, da ieri oggetto di molti strali per le sue dichiarazioni in diretta, eppure a fuoco come poche altre persone su questo punto specifico: «Il potersi rivolgere a reti unificate a tutti i cittadini è prerogativa del presidente del consiglio e del capo dello stato, e sempre vi è stato fatto ricorso, come è giusto, solo in circostanze eccezionali. E lo è sicuramente l’emergenza attuale. Il premier ha ben illustrato la situazione e i provvedimenti che ci terranno ancora vincolati fino al 3 maggio. Poi però, passando alla materia degli aiuti europei, si è lasciato andare a una dura polemica con i suoi avversari politici. E questo – lo penso, l’ho detto a caldo in sede di commento ieri e lo ribadisco oggi – non si può proprio fare. Non quando utilizzi un privilegio assoluto come è quello di parlare direttamente a decine di milioni di italiani, in un frangente drammatico, da una sede istituzionale, illustrando un decreto che riguarda la salute e la vita di tutti. Il politico Conte aveva mille strumenti per rispondere agli attacchi (sgradevoli, strumentali, elettoralistici quanto si vuole) di Salvini e Meloni: attraverso i social, con un comunicato, con dichiarazioni o interviste. Tutti i mezzi di comunicazione, e ovviamente anche il giornale che dirigo, gli avrebbero dato un ampio spazio (e peraltro è quello che abbiamo fatto anche ieri sera). Ma parlando al paese il premier Conte doveva conservare il profilo per il quale gli veniva consentito di usare quel canale privilegiato. Se voleva spiegare la situazione dopo l’Eurogruppo, come ha fatto, gli bastava ricordare che il governo italiano non ha chiesto di accedere al Mes e nel prossimo vertice europeo tornerà a chiedere gli Eurobond, con buona pace di chi sostiene il contrario. Punto. Agli attacchi, che ripeto sono forse sgradevoli, falsi, elettoralistici o strumentali, ma che fanno parte dell’armamentario di ogni opposizione, possono e devono replicare i loro pari grado della maggioranza, non il capo del governo mentre parla al paese». Molto impopolare, proprio come la democrazia.

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