ANCHE QUESTO È RESISTERE

Il confine tra la celebrazione di una ricorrenza e la sua commemorazione retorica è alle volte sottile, spesso flebile. Ci si muove sempre su di un crinale insidioso, in cui da un lato vi è il precipizio della stucchevolezza, mentre dall’altro si apre la vasta e sterile prateria degli automatismi sociali. Metro-Polis si è voluta mantenere alla larga da queste insidie ma non ha rinunciato a dedicare uno dei propri Aperitivi a Tema alla Liberazione e alla Resistenza, convinta dell’eterno presente in cui vivono le istanze celate dietro a questi termini.
Come si legge nell’articolo introduttivo, scritto per questo blog da Beatrice Collina, abbiamo voluto realizzare una «serata evocativa e al tempo stesso divertente […] attraverso parole e suoni», resa possibile dall’alternarsi di letture di autori sia italiani che stranieri, di canti partigiani, di immagini e di video. L’impegno e la leggerezza, ancora una volta, sono stati i paradigmi che hanno ispirato l’azione di Metro-Polis, nella convinzione che solo attraverso una condivisione conviviale e divertita si possa giungere alla comprensione piena di eventi anche drammatici; si possa arrivare a carpire idee e situazioni complesse, sentendole e abitandole intimamente. Molte sono le chiavi di accesso possibili ai temi che trattiamo, ma la nostra è peculiare, eterodossa se vogliamo, consapevolmente differente rispetto ai canoni culturali messi in essere dalla realtà che ci circonda.

«Forse non farò cose importanti, ma la storia è fatta di piccoli gesti anonimi, forse domani morirò, magari prima di quel tedesco, ma tutte le cose che farò prima di morire e la mia morte stessa saranno pezzetti di storia, e tutti i pensieri che sto facendo adesso influiscono sulla mia storia di domani, sulla storia di domani del genere umano»
È ancora una volta Italo Calvino ad aprire le nostre danze e a condurci per mano all’interno di una serata dall’impatto emotivo forte anche per chi, come chi scrive, è cronologicamente lontano da quanto accaduto e lo ha vissuto indirettamente, solamente attraverso le sinossi dei libri di storia. Si è subito catapultati in un mondo altro, fatto di ricordi, sì, ma anche di esperienze vive, nuovamente vivificate da un’alchimia di lettura, canzone e riflessione che sa di magia.

«Caro Luigi,
in realtà la guerra, ultima fase del fascismo trionfante, ha agito su di noi più profondamente di quanto risulti a prima vista. La guerra ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento.
Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari, avrei discusso i problemi dell’ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia dell’uomo solo le ragioni di un profondo interesse, e l’incontro con una ragazza o un impulso qualunque alla fantasia avrebbero contato per me più di ogni partito o dottrina.
Altri amici, meglio disposti a sentire immediatamente il fatto politico, si erano dedicati da anni alla lotta contro il fascismo. Pur sentendomi sempre più vicino a loro, non so se mi sarei deciso a impegnarmi totalmente su quella strada […].
Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile.
Credo che per la maggior parte dei miei coetanei questo passaggio sia stato naturale: la corsa verso la politica è un fenomeno che ho constatato in molti dei migliori […]
Fenomeni di questo genere si riproducono ogni volta che la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze di una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere a un estremo pericolo.
Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte.
Quanto a me, ti assicuro che l’idea di andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo; non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e l’accolgo»

Jaime Pintor scrive al fratello Luigi, alcuni giorni prima di morire a Castelnuovo al Volturno, mentre tentava di attraversare il fronte, recandosi nel Lazio per organizzare l’attività partigiana. Pintor si riconosce in questa lettera, riconosce il limite delle proprie forze e delle proprie volontà, si scopre fatto di carne , desideri, timori. Fotografa in queste parole ogni nostra debolezza per poi scoprirne in seno la forza risoluta e inevitabile.

«Sette fratelli come sette olmi,
alti robusti come una piantata.
I poeti non sanno i loro nomi,
si sono chiusi a doppia mandata :
sul loro cuore si ammucchia la polvere
e ci vanno i pulcini a razzolare.
I libri di scuola si tappano le orecchie.
Quei sette nomi scritti con il fuoco
brucerebbero le paginette
dove dormono imbalsamate
le vecchie favolette
approvate dal ministero.

Ma tu mio popolo, tu che la polvere
ti scuoti di dosso
per camminare leggero,
tu che nel cuore lasci entrare il vento
e non temi che sbattano le imposte,
piantali nel tuo cuore
i loro nomi come sette olmi :
Gelindo,
Antenore,
Aldo,
Ovidio,
Ferdinando,
Agostino,
Ettore ?

Nessuno avrà un più bel libro di storia,
il tuo sangue sarà il loro poeta
dalle vive parole,
con te crescerà
la loro leggenda
come cresce una vigna d’Emilia
aggrappata ai suoi olmi
con i grappoli colmi
di sole»

I versi puliti di Gianni Rodari, tessuti  da un ordito prezioso in Compagi fratelli Cervi, hanno la forza di una rivoltellata nella faccia ma si sciolgono come un balsamo luminoso. E siamo con i sette fratelli mentre diffondono la stampa clandestina, con loro mentre nascondono i fuggitivi nella provincia di Reggio Emilia, siamo loro mentre vengono fucilati dai fascisti, il 28 dicembre 1943.
È ancora Calvino, dieci anni dopo la loro esecuzione, a scrivere:

«Tutto quello che il popolo italiano espresse di meglio nella Resistenza: lotta contro la guerra, patriottismo concreto, nuovo slancio di cultura, fratellanza internazionale, inventiva nell’azione, coraggio, amore della famiglia e della terra, tutto questo fu nei Cervi. Perciò in questi sette veri volti di intelligenti contadini emiliani riconosciamo l’immagine della nostra faticosa, dolorosa rinascita»

La luce torna ricorrente nelle parole di questa serata: la vista, il vedere, la consapevolezza; ma anche un sole capace di dare ristoro, in grado di rendere giustizia, una luminosità che è riflessione e omaggio. Così torna la luce anche nei versi di Giuseppe Ungaretti:

«Qui vivono per sempre

gli occhi che furono chiusi alla luce

perché tutti li avessero aperti

per sempre alla luce»

Impossibile, però, non pensare al buio e alle vite inghiottite da un oblio oscuro su cui è necessario accendere un faro, a cui bisogna prestare una voce per dare loro la possibilità di raccontare e di raccontarsi. Impossibile non pensare a Dante Di Nanni, partigiano diciannovenne ucciso dopo aver partecipato, a Torino, a un’azione contro un’antenna radio Èiar, la voce del fascismo per gran parte del ventennio.

«E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo ?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento»

Versi così differenti ci conducono tutti in un luogo preciso, un luogo di memoria e di testimonianza. Ma il ricordo non è neutrale, così come non è indistinto l’omaggio o il ripudio. Il ricordo ha una componente fisica, quasi materiale, e per essere una memoria degna essa necessita di scelta e discernimento. L’invito di Diego Marani è allora quello di fare chiarezza e di farla camminando, sudando, sporcandosi:

«È possibile parlare di Resistenza senza parlare di sentieri, di colline, valli e montagne? Che cosa si può dire sui partigiani e su coloro che essi combattevano, dopo che in questi sessant’anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale l’Italia ha formato ben altre montagne sull’argomento? Montagne di libri (memorie di testimoni e protagonisti, ricostruzioni di storici, romanzi), di immagini (film, documentari e sceneggiati televisivi), di suoni (le “canzoni dei partigiani”). Sulla Resistenza ormai sono state dette e scritte così tante parole e si sono viste così tante immagini che il rischio più preoccupante è l’oblio pianificato. E in Italia sono in troppi quelli che preferiscono dimenticare (non solo la Resistenza e i partigiani). O uno, per volontà e motivazioni personali, sa orientarsi nel labirinto di memorie, di interpretazioni storiografiche e di polemiche politiche, oppure forse è più utile prendere uno zaino e infilarsi un paio di scarponi. Per ricordare bisogna camminare.
Bisogna camminare su sentieri della memoria per ricordare quel “momento di eccezionale rilievo morale”. Non solo perché un giorno potrebbe tornarci utile, ma anche perché abbiamo la responsabilità di “non consentire che la storia del Novecento anneghi nel mare dell’indistinzione”, come ha scritto Sergio Luzzato, visto che “ci è dato di scegliere quali antenati onorare e quali ricusare” e che “l’identità di una nazione si costruisce anche – così nel tempo come nello spazio – intorno ai luoghi della memoria”.

Metro-Polis spiazza. Lo fa sempre, con forza e delicatezza. Spiazza anche quando decide di rivolgersi alle donne della resistenza, introducendole con una canzone di Fiorella Mannoia, Combattente, il cui testo è stato scritto da Cheope e musicato da Federica Abbate:

«Forse è vero
Mi sono un po’ addolcita
La vita mi ha smussato gli angoli
Mi ha tolto qualche asperità

Il tempo ha cucito qualche ferita
E forse tolto anche ai miei muscoli
Un po’ di elasticità
Ma non sottovalutare la mia voglia di lottare
Perché è rimasta uguale
Non sottovalutare di me niente
Sono comunque sempre una combattente

È una regola che vale in tutto l’universo
Chi non lotta per qualcosa ha già comunque perso
E anche se la paura fa tremare
Non ho mai smesso di lottare

Per tutto quello che è giusto
Per ogni cosa che ho desiderato
Per chi mi ha chiesto aiuto
Per chi mi ha veramente amato
E anche se qualche volta ho sbagliato e qualcuno
Non mi ha ringraziato mai
So che in fondo
Ritorna tutto quel che dai

Perché è una regola che vale in tutto l’universo
chi non lotta per qualcosa ha già comunque perso
e anche se il mondo può far male
non ho mai smesso di lottare

e in questa lacrima infinita
c’è tutto il senso della vita»

La lotta, continua, incessante, stremante; la necessità della rivendicazione e della presenza, presidio ultimo contro ogni male. Tutto ciò traspare anche nelle parole di Ada Gobetti.

«Nella Resistenza la donna fu presente ovunque: sul campo di battaglia come sul luogo di lavoro, nel chiuso della prigione come nella piazza o nell’intimità della casa. Non vi fu attività, lotta, organizzazione, collaborazione, a cui ella non partecipasse: come una spola in continuo movimento costruiva e teneva insieme, muovendo instancabile, il tessuto sotterraneo della guerra partigiana»

Così nei versi di Edoardo Sanguineti, che ci riportano alla terra, alle viscere profonde, alla quotidianità di ciò che è stato e di ciò che è.

«Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia.

Quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace.

Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire.

Perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente.

Femmina penso, se penso l’umano
la mia compagna, ti prendo per mano»

Qual è il senso, oggi, della Resistenza? Chi siamo? Come ci definiamo in base a ciò che quell’evento è stato? La sfida è quella di non svuotare il senso dell’impresa della liberazione consumandolo nella celebrazione, nel rito che perde contatto con la realtà. Una risposta possibile viene da uno dei presidenti più amati della storia repubblicana italiana, Sandro Pertini:

«Oggi la nuova resistenza in che cosa consiste. Ecco l’appello ai giovani: di difendere queste posizioni che noi abbiamo conquistato; di difendere la Repubblica e la democrazia. E cioè, oggi ci vuole due qualità a mio avviso cari amici: l’onestà e il coraggio. L’onestà… l’onestà… l’onestà. […] E quindi l’appello che io faccio ai giovani è questo: di cercare di essere onesti, prima di tutto: la politica deve essere fatta con le mani pulite. Se c’è qualche scandalo. Se c’è qualcuno che dà scandalo; se c’è qualche uomo politico che approfitta della politica per fare i suoi sporchi interessi, deve essere denunciato!»

Resistere, oggi, molto probabilmente significa essere onesti, con se stessi in prima battura, trasparenti verso gli altri, limpidi nell’impegno. Un’onestà che si fa paradigma morale, metro di valutazione per le azioni pubbliche e unica misura possibile della politica.

«Doveva essere migliore degli altri il nostro XX secolo.
Non farà più in tempo a dimostrarlo,
ha gli anni contati,
il passo malfermo,
il fiato corto.

Sono ormai successe troppe cose
che non dovevano succedere,
e quel che doveva arrivare,
non è arrivato.

Ci si doveva avviare verso la primavera
e la felicità, fra l’altro.

La paura doveva abbandonare i monti e le valli,
la Verità doveva raggiungere la meta
prima della menzogna.

Certe sciagure
non dovevano più accadere,
ad esempio la guerra
e la fame, e così via.

Doveva essere rispettata l’inermità degli inermi,
la fiducia e via dicendo.

Chi voleva gioire del mondo
si trova di fronte a un compito irrealizzabile.

La stupidità non è ridicola.
La saggezza non è allegra.

La speranza
non è più quella giovane ragazza, purtroppo.

Dio doveva finalmente credere nell’uomo
buono e forte,
ma il buono e il forte
restano due esseri distinti.

Come vivere? – mi ha scritto qualcuno,
a cui io intendevo fare
la stessa domanda.

Da capo e allo stesso modo di sempre,
come si è visto sopra,
non ci sono domande più pressanti
delle domande ingenue»

Come vivere? È forse questa la domanda più urgente e non è un caso che ci venga posta da una poeta, da Wislawa Szymborska  in Scorcio di secolo. Come vivere con alle spalle un’eredità così pesante, lordata dal sangue, impreziosita dall’eroismo ma pur sempre sprofondata nel massacro? Come vive in compagnia degli orrori della guerra? Come vivere in modo tale da rendere le nostre esistenze testimonianza continua di pluralità e dignità? «non ci sono domande più pressanti  / delle domande ingenue».

«Viva l’Italia
Viva l’Italia, l’Italia liberata,
l’Italia del valzer, l’Italia del caffè

L’Italia derubata e colpita al cuore,
viva l’Italia, l’Italia che non muore.
Viva l’Italia, presa a tradimento,
l’Italia assassinata dai giornali e dal cemento,
l’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura,
viva l’Italia, l’Italia che non ha paura.
Viva l’Italia, l’Italia che è in mezzo al mare,
l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare,
l’Italia metà giardino e metà galera,
viva l’Italia, l’Italia tutta intera.
Viva l’Italia, l’Italia che lavora,
l’Italia che si dispera, l’Italia che si innamora,
l’Italia metà dovere e metà fortuna,
viva l’Italia, l’Italia sulla luna.
Viva l’Italia, l’Italia del 12 dicembre,
l’Italia con le bandiere, l’Italia nuda come sempre,
l’Italia con gli occhi aperti nella notte triste,
viva l’Italia, l’Italia che resiste»

Un paese strano quello in cui ci troviamo a vivere, ben fotografato da Francesco De Gregori in Viva l’Italia!. Un paese contraddittorio, fatto di opposti, un paese di grandi slanci e dall’inerzia disarmante. Una nazione che invita continuamente il proprio popolo a resistere, prima di tutto a se stesso. Resistere al mal costume che permea un certo senso dell’italianità, resistere alle bassezze di una classe dirigente in larga misura indegna di essere tale, resistere alle tentazioni della furberia. Resistere per consegnarci alla bellezza della fatica di ciò che è giusto, allo sforzo della razionalità dialogica, al continuo esercizio della critica.
Charlie Chaplin, sul pulpito del mondo, si rivolge direttamente a noi, invitandoci allo stesso tipo di resistenza:

Ogni altra parola sarebbe a questo punto superflua. Non rimane che ringraziare le lettrici e i lettori che hanno prestato la loro voce alle personalità da cui abbiamo preso in prestito versi e parole: socie e soci di Metro-Polis che, con passione e ardore, si sono dedicati alla costruzione di questa serata. Un ringraziamento particolare, ricolmo di affetto, va riservato a Lauro Serra, Roberto Serra e Antonio Masella: grazie alla loro musica abbiamo potuto ascoltare canti partigiani e non, in un contrappunto poetico di rara bellezza.
Questa serata ha accolto la festa, l’incontro con un’alterità polifonica, ha portato quella leggerezza che è profondità. Il 25 aprile trascorso insieme non è stato solo l’esercizio della memoria, no, è stata la testimonianza viva dell’eterno presente di queste istanze, la loro risignificazione nell’attuale. Sono state le parole antiche nelle voci nuove, è stato un racconto di passioni, un concerto di riflessione e poesia. Ma soprattutto è stata una festa e non è peccato rivendicarlo: il ritrovarsi, al di fuori da ogni retorica, inventandoci un terreno comune di sentire e sapere, una dimensione in cui ogni dignità ha ragione di essere e in cui Metro-Polis è casa. Anche questo è resistere.

Mattia Macchiavelli

Fotografie a cura di Filippo Costa
Riprese a cura di Vincenzo Comitogianni
Montaggio a cura di Laura Comitogianni

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