di Gianluca Guerra
«Within our mandate the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough».
È il 26 luglio 2012, l’Unione Europea è sull’orlo del baratro per le conseguenze della crisi dei debiti sovrani.
All’ennesima domanda sul rischio di crollo dell’euro, l’allora Presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi pronuncia, con quella che sembra un’aria di sfida, una frase destinata a rimanere nella storia del nostro continente e forse del mondo intero.
«All’interno del nostro mandato, la Banca Centrale Europea è pronta a fare tutto ciò che è necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza». Un monito per la Bundesbank e per i fondi di speculazione che avevano scommesso sulla ceduta dell’Eurozona.
Otto anni e mezzo dopo, Mario Draghi viene incaricato dal Presidente della Repubblica Mattarella di formare un nuovo Governo e, per una settimana, viene trasformato dall’opinione pubblica italiana in una sorta di creatura mitologica: metà salvatore della Patria e metà cavaliere dell’apocalisse.
Su Mario Draghi sono già state scritte agiografie da giornali e da opinionisti di tutto il paese; e mentre Città della Pieve è diventata meta di pellegrinaggio di curiosi e adoratori, frotte di politici e di personaggi noti della vita romana hanno cominciato a ricordare la miriade di momenti in cui hanno condiviso ossigeno, pensieri e parole con la nuova rockstar di Stato.
Ciò che è certo, astraendosi dal chiacchiericcio vuoto dei media nazionali, è che Mario Draghi pare avere le idee molto chiare sulle priorità per rilanciare il Paese: fisco, pubblica amministrazione, sanità, lavoro, ambiente.
Ciò che è altrettanto certo, è che il nuovo Presidente del Consiglio incaricato ha raccolto il benestare di quasi tutto l’emiciclo parlamentare, riuscendo perfino a far rivalutare ai leghisti le proprie posizioni anti-europee e far loro valutare un futuro nel Partito Popolare Europeo (PPE).
Un po’ come davanti allo specchio delle brame di Harry Potter, tutti gli esponenti politici che hanno preso parte alle consultazioni hanno trovato in Draghi ciò che più desiderano: Renzi lo considera la sua opera magna, i liberali lo elevano a salvatore della Patria, Grillo ha esplicitamente detto di aver incontrato un «grillino» e Salvini di aver rivisto in lui i valori che hanno ispirato il Carroccio.
Ma chi è quindi Mario Draghi? Che cosa possiamo imparare dal suo passato per aiutarci a capire che genere di guida sarà per l’Italia, se così realmente sarà?
LA FORMAZIONE
Ricostruire un quadro completo è impresa ardua poiché Draghi ha sempre preferito i fatti alle parole, peculiarità che già ci permette di inserirlo in un filone in controtendenza con la stagione della politica da social che il nostro paese vive da qualche anno a questa parte.
Tuttavia, è bene ricordarsi che la storia di Draghi inizia ben prima degli anni della BCE e del Whatever it takes: suo padre Carlo è un importante membro della Banca d’Italia prima e dell’Iri poi, dove collabora con Donato Menichella, uno dei mostri sacri della ricostruzione dell’Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Diplomatosi al liceo dei gesuiti Massimo di Roma, Draghi studia economia all’università La Sapienza sotto la guida di Federico Caffè, uno dei più celebri economisti italiani della prima repubblica e keynesiano eterodosso, molto attento alle dinamiche legate alle disuguaglianze; si laurea con una tesi sul Piano Werner(1) e sull’impossibilità, negli anni ’70, di instaurare una Unione Economica e Monetaria in Europa.
Dopo la parentesi romana si trasferisce a Boston dove viene selezionato per un dottorato di ricerca al Massachusetts institut of Technology (MIT), all’epoca Università rivale della celebre scuola di Chicago e casa di numerosi premi Nobel.
Draghi studia così sotto l’influenza di Paul Samuelson, Robert Solow, Franco Modigliani, Peter Diamond e Robert Engle e condivide le sue giornate con alcune delle personalità più importanti del mondo della Politica economica contemporanea(2): Rudy Dornbusch, Olivier Blanchard, Paul Krugman e Obstfeld.
È chiaro quindi fin da qui come gli anni di Boston abbiano fornito a Mario Draghi non solo una impostazione economica di stampo neokeynesiano(3), ma lo abbiano anche caratterizzato come uomo da mischia politica oltre che come rigoroso e preparato economista d’accademia.
IL MINISTERO DEL TESORO E LA BANCA D’ITALIA
Questa sua particolarità viene notata da Carlo Azeglio Ciampi e da Guido Carli, celebre Presidente di Banca d’Italia, che lo richiamano a Roma nel ruolo di direttore generale Tesoro. Qui Draghi lavorerà dal 1991 al 2001, attraversando gli anni di Maastricht, dell’euro e delle grandi riforme economiche per risanare il debito pubblico: si aggiudica, così, la nomea di sfrenato liberista amante delle privatizzazioni, da lui considerate un atto politico importante anche se non la panacea di tutti i mali.
Alquanto esplicative sono le sue parole pronunciate sullo Yacht Britannia nel 1992: «La decisione sulla privatizzazione è un’importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare. Pertanto, può essere presa solo da un esecutivo che ha ricevuto un mandato preciso e stabile»(4). Parole che offrono un quadro più completo della caratura politica di Mario Draghi, che tutto è fuorché un semplice tecnico.
Negli anni al Tesoro Draghi intesse importanti relazioni con il mondo romano della politica e dell’imprenditoria, lavora in modo molto trasparente e puntuale con il Parlamento e crea legami fondamentali con i partner europei che compongono l’eurozona. Dimostra inoltre di possedere una chiara visione politica e una ancora più importante capacità manageriale, facendo della competenza e dell’efficienza un tratto distintivo delle realtà da lui guidate.
Dopo una breve parentesi alla Goldman Sachs, Draghi viene chiamato alla guida della Banca d’Italia. Da governatore mira a rinnovare l’istituzione, anche a seguito dello scandalo bancopoli, puntando sulla digitalizzazione, sull’assunzione di nuove competenze tecniche e sullo stimolo verso l’aggregazione di istituti bancari per evitare acquisti da parte di banche estere. Se da un lato queste misure hanno permesso la sopravvivenza di importanti istituti finanziari, dall’altro hanno portato a una crescita di potere incontrollato di alcuni agglomerati come Intesa SanPaolo, Unicredit e Monte dei Paschi di Siena
Celebri sono le sue considerazioni di fine anno di quel periodo, che dura dal 2005 al 2011, in cui non si limita a parlare di finanza e banche, ma anzi affronta con lucidità una vasta gamma di temi politici rilevanti per il paese: riduzione delle tasse, riduzione del debito pubblico, taglio delle spese correnti, aumento degli investimenti, riforma della previdenza, freno all’inflazione, riforma del mercato del lavoro, sostegno ai redditi e agli ammortizzatori sociali, innalzamento dell’età pensionabile, sostegno alle imprese da parte delle banche, modernizzazione della scuola e superamento del divario nord-sud.
LA BANCA CENTRALE EUROPEA E IL WHATEVER IT TAKES
Nel 2006 presiede il Financial Stability Board, luogo di incontro dei ministri delle finanze globali che con la crisi del 2008 diventa il centro della finanza mondiale e la cabina di regia da cui parte la risposta alla crisi dei subprime che in pochi anni si trasferisce dalle torri di Wall Street negli Stati Uniti al continente europeo. Una crisi che ha provocato effetti disastrosi anche sull’economia reale dopo che le banche, ormai in crisi di solvibilità, chiudono i rubinetti alla imprese, che cominciano a cadere come mosche.
Per affrontare questa situazione, nel novembre 2011, viene chiamato proprio Draghi che assurge al ruolo più importante nella gerarchia della politica economica europea: governatore della Banca Centrale Europea (BCE).
A capo della BCE Draghi dimostra senza dubbio impareggiabili capacità diplomatiche e politiche, che lo portano a cercare più volte la sponda della cancelliera tedesca Angela Merkel nello scontro frontale con le banche tedesche che mal digeriscono l’idea di immettere quantità di moneta indefinita nel sistema bancario europeo per sostenere l’economia di paesi, come la Grecia e l’Italia, il cui debito pubblico è considerato insostenibile.
È in questo contesto di fuoco e fiamme che Draghi compie il celebre discorso del Whatever it takes, dando inizio al suo piano per salvare l’eurozona. Nonostante l’opposizione della Bundesbank, egli impone infatti una linea innovativa alla politica monetaria per rispondere alla crisi finanziaria: tra il 2011 e il 2012 quasi 1000 miliardi di euro sono stati allocati nel sistema bancario commerciale attraverso due aste di operazioni di rifinanziamento a lungo termine (LTRO)(5), che apportano però benefici molto marginali all’economia reale.
Il persistere di stagnazione economica e l’avvicinarsi della possibilità di deflazione portano alla decisione, due anni dopo, di alleggerire la stretta creditizia delle banche verso l’economia reale con strumenti convenzionali (abbassamento dei tassi di interesse allo zero, tasso di interesse negativo per i depositi presso la stessa BCE) e non convenzionali come i targeted LTRO, ossia un finanziamento bancario di lungo termine ma finalizzato al supporto di imprese del settore non finanziarie.
È però nel 2015 che si compie l’apoteosi del piano Draghi, con l’inizio del Quantitative easing, un piano di acquisto di titoli di debito pubblici e privati da 60 miliardi al mese, successivamente aumentato a 80 miliardi al mese e rinnovato di anno in anno con il parere favorevole della corte europea di giustizia e che permette di fatto all’eurozona di superare, seppur molto ammaccata, la tempesta.
COSA ASPETTARSI
Da questa ricostruzione della persona e della carriera di Mario Draghi si ricava un quadro molto complesso e articolato. A prescindere da come la si pensi sull’operato di Draghi, è innegabile un elemento: il suo non sarà un governo tecnico come quello di Mario Monti. Questo non solo perché come prevedibile egli ha inserito in rosa un cospicuo numero di rappresentanti dei partiti, ma soprattutto perché Draghi è un politico navigato pur non avendo mai militato attivamente in uno schieramento. Ha imparato a dare del tu ai corridoi e alle stanze della Roma che conta nei suoi anni al Tesoro e alla Banca d’Italia, ed è riuscito a piegare le maglie del sistema bancario europeo alle sue volontà.
Oltre a questo, non ha mai perso occasione di esprimere la propria visione per il paese e per l’Europa, e leggendo tra le righe (ma neanche tanto) delle sue parole e delle sue azioni, molti suoi detrattori e adulatori acritici potrebbero rimanere sorpresi.
Draghi è infatti l’uomo che ha privatizzato importanti asset produttivi ed economici del Paese e che ha lavorato e implementato il Patto di Stabilità e crescita da cui deriva la spending review che leghisti e grillini, oggi cautamente europeisti, fino a ieri consideravano alla stregua di Belzebù.
Ma egli è al contempo il leader pragmatico che ha iniettato liquidità nel sistema economico europeo per evitare il default e le sue conseguenze sulla vita dei cittadini di tutto il continente, che ha rinnovato profondamente qualunque istituzione si è trovata a guidare, e che ha più volte dichiarato e dimostrato di ritenere la riduzione delle disuguaglianze e una maggiore spesa pubblica produttiva la strada giusta per il rilancio del paese unitamente all’efficientamento della burocrazia, alla lotta all’evasione e a una maggiore coesione territoriale(7).
Difficile quindi dire quale sarà il reale impatto che il neonato esecutivo Draghi riuscirà ad avere. Difficile dire se le alchimie che compongono la nuova maggioranza diventeranno materia tangibile o se la nuova squadra composta dall’ex Presidente della BCE rimarrà impantanata nelle diatribe storiche tra i partiti che la sostengono.
Difficile anche dire se la ricetta per la ripresa che ha in mente avrà effetti positivi.
Ciò che è certo è che un governo, per lo più a scadenza massima di due anni, non può essere considerato la panacea di ogni male. Dopo le elezioni del 2023 il problema di chi dovrà guidare l’Italia e imprimere una forte direzione di cambiamento si ripresenterà ancora più forte di prima.
Tante cose vanno fatte e vanno fatte subito, ma ciò che di più serve al paese è una guida politica che sappia dare una direzione di lungo periodo, coinvolgendo i cittadini in un processo di miglioramento collettivo.
Draghi potrà fare tanto, ma sicuramente non cammina ancora sulle acque e non si è attrezzato per i miracoli.
Ciò che serve al Paese, e ciò che chi scrive auspica, è che questi due anni offrano lo stimolo per l’affermazione di forze politiche nuove, competenti, dirompenti e capaci di sfidare la corrente dell’inerzia romana guardando fuori dai confini della zona di comfort in cui il paese si crogiola da 70 anni. Solo se dalla fucina della buona politica (di cui il paese è per fortuna pieno) usciranno idee e persone pronte a trasformarle in realtà, potremmo tirare un sospiro di sollievo e ricominciare a vedere i nostri occhi brillare di speranza.
NOTE
1https://www.ispionline.it/it/europa_a_scuola/documenti/rapporto_werner.htm
2 https://www.nytimes.com/2015/07/24/opinion/paul-krugman-the-mit-gang.html
3 I neokeynesiani ritengono che i prezzi e i salari siano vischiosi, ovvero non si adeguino istantaneamente alle variazioni delle condizioni economiche. Questo, insieme alle altre variabili del mercato presenti nei modelli neokeynesiani, implica che l’economia possa fallire nell’ottenere la massima occupazione. I neokeynesiani sostengono dunque che la stabilizzazione macroeconomica con intervento dei governi centrali (usando la politica fiscale) o delle banche centrali (usando la politica monetaria) possa portare a un risultato più efficace di una politica macroeconomica classica all’insegna del laissez faire.
4 https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/01/22/britannia-la-vera-storia/5681308/
5 https://it.wikipedia.org/wiki/Piano_di_rifinanziamento_a_lungo_termine
6 https://it.wikipedia.org/wiki/Allentamento_quantitativo
7 https://www.ft.com/content/c6d2de3a-6ec5-11ea-89df-41bea055720b