DA CHE PARTE STIAMO?

LA SINISTRA E IL GOVERNO DRAGHI

di Federica Stagni

La sinistra parlamentare italiana non ha dato grandi segni di vita in vista delle nomine del governo Draghi. Non ha aperto un dibattito interno sulla questione, e il PD appoggerà un altro governo tecnico, pare senza farsi troppe domande. L’alternativa, come sappiamo bene, sarebbe stata quella di tornare al voto, scenario che molto probabilmente avrebbe determinato la vittoria della destra più reazionaria. Tuttavia, il sostegno indiscusso a un governo Draghi infligge un duro colpo alla democrazia italiana. L’arroccarsi su posizioni che inneggiano alla competenza e all’alto profilo della sua figura istituzionale nasconde una visione del mondo estremamente classista ed elitaria. Questo non vuole dire che sia irrilevante essere bravi amministratori della cosa pubblica, ma dall’altro lato la competenza tecnica non può essere l’unico metro di valutazione della legittimità di un governo, perché anche le competenze del banchiere Draghi non sono neutre. Purtroppo, come ci ha dimostrato il governo Monti, competenza non è affatto sinonimo di imparzialità e tanto meno di giustizia sociale. Inoltre, dovrebbe farci riflettere il fatto che i più entusiasti sostenitori di Mario Draghi siano proprio i rappresentanti di Confindustria. La sinistra parlamentare dovrebbe almeno porsi il problema di come legittimare questa scelta perché così, senza porsi le giuste domande, rischia di firmare la sua condanna a morte.

Ora come ora non c’è una scelta giusta o una sbagliata, ma la verità è che non c’era assolutamente alcuna ragione per far cadere il governo Conte e aprire una nuova crisi. Nonostante tutti i limiti di questo governo, che non staremo qui a elencare per questioni di spazio, la figura di Conte godeva di un supporto popolare elevato e l’ex premier è considerato uno dei leader più graditi in Europa per la gestione della pandemia. Dall’altro lato Italia Viva è estremamente impopolare, secondo i sondaggi solo il 3 per cento degli italiani sostiene il partito di Renzi. Si fatica quindi a trovare motivazioni valide che riguardino l’interesse pubblico e che siano in grado di giustificare questa mossa, se non in termini d’interessi individuali, che in Italia sembrano l’unica forza in grado di spostare l’ago della bilancia. 

Se lo scopo di Renzi era far saltare il governo Conte per far saltare il nuovo centrosinistra che ha tentato di costituirsi come unica alternativa credibile alla destra reazionaria di Salvini e Meloni, va detto che ci è riuscito. Infatti, se il Pd sosterrà Draghi ma non lo farà invece il M5S, la coalizione di centro sinistra avrà vita breve e Renzi sarà libero di portare avanti il suo progetto di partito centrista neoliberale che pesca dal bacino elettorale tanto del PD quanto di Forza Italia. 

La nomina di Draghi ripete la stessa vecchia cura della «responsabilità fiscale» progettata per migliorare la «reputazione internazionale» dell’Italia che demarca una linea davvero troppo sottile col servilismo nei confronti degli istituti economici neoliberali. Ma è anche qualcos’altro. All’indomani della pandemia, è anche un tentativo da parte dei circoli economici di mettere le mani sugli investimenti del Recovery Fund, indirizzandoli verso il settore delle imprese, piuttosto che verso riforme sociali in grado di alleviare le conseguenze distruttive della pandemia. E questo deve essere chiaro a tutti coloro di sinistra che decidono di sostenere la nomina di Draghi. 

Purtroppo, per quanto l’opzione Draghi possa apparire come la meno peggio non dobbiamo dimenticare il ruolo fondamentale da lui giocato nell’ideazione delle politiche di austerity all’indomani della crisi del 2008. Per quanto in alcune interviste si sia dimostrato più moderato e, se vogliamo, aperto a una politica più Keynesiana, resta una figura di spicco apprezzata dai fautori del neoliberismo europeo. Il rischio è quindi quello che un governo Draghi non rinnoverà il divieto di cassa integrazione temporanea introdotto nel marzo 2020, tanto criticato da Confindustria, e permetterà di reintrodurre il “diritto” di licenziare i lavoratori. Sì, proprio quei lavoratori che la sinistra dovrebbe impegnarsi a rappresentare, e che un tempo rappresentavano il suo principale bacino di voto.

 

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