LA RESPONSABILITÀ EDUCATIVA

di Felice Signoretti 

Il problema della responsabilità educativa investe ciascuno di noi, qualsiasi sia la propria professione e qualsiasi sia il modo di condurre il nostro rapporto con gli altri. Coloro che si sentono liberi dal dovere di affrontare il problema educativo negano che le loro scelte, le loro parole, i loro comportamenti, anche quotidiani, anche banali, possano avere un valore educativo. Si tratta di un grande sbaglio o, peggio, di una volontaria mistificazione. Indubbiamente per i genitori, i docenti, i religiosi il problema si pone alla base delle loro azioni nei rapporti con figli, studenti, adepti. Ma ognuno risente, nella vita comune, di quanto coscientemente o inconsciamente viene in lui indotto o stimolato dall’altro con cui egli entra in relazione, sia a livello paritario che a livello subordinato. Il mondo si trasforma, in bene o in peggio, dalle relazioni tra gli uomini e dalle dinamiche che esse creano. E ognuno è chiamato, da parole e gesti, a tirare fuori da se stesso (educere) gli elementi costitutivi della propria intelligenza, della propria sensibilità, del proprio sapere.

Se poi torniamo a ciò che comunemente intendiamo come relazione educativa sappiamo che essa è all’interno del rapporto tra adulto e giovane, tra genitori e figli, tra insegnanti e discenti. Se ne occupa recentemente Massimo Recalcati, autore di vari saggi dedicati al problema(1), che, sia pure spesso entro i confini della psicanalisi lacaniana, allarga la sua visione, con forma espositiva di grande chiarezza, in campo scolastico, pedagogico, religioso. Ne Il segreto del figlio. Da Edipo al figlio ritrovato è di particolare interesse la figura del padre nella parabola lucanea del figliol prodigo, trattata dopo aver analizzato la figura di Abramo e di Edipo. Emergono, nella sua analisi, gli elementi costitutivi che la guidano: la figura dell’Altro che non è violabile, la funzione della Parola, che è di sovvertimento di ciò che è dato come immutabile, la visione della Legge, quale imposizione esteriore ad una esistenza che invece è scoperta, viaggio, erranza, conoscenza. Tale esistenza può essere autenticamente vissuta sotto una Legge del tutto altra: la Legge dell’Amore, che rende possibile sempre un nuovo inizio, interrompendo l’applicazione della Legge inesorabile del destino. Amore che è anche misericordia, capacità di capire e perdonare ogni forma di trasgressione, ovvero rispetto totale dell’altro e dei suoi errori(2).

Questa visione di Recalcati ci richiama all’insegnamento di colui che è stato, a mio parere, un grande profeta dei problemi generazionali, educativi, valoriali: Pier Paolo Pasolini. Leggendo i suoi articoli e interpretando la sua produzione letteraria e cinematografica non si può non scorgere quanto nella sua visione siano forti e determinanti gli scontri tra generazioni e le tecniche del neocapitalismo per ottenebrare una positiva forza vitale e innovatrice delle nuove generazioni. Sarebbe troppo lungo soffermarci sulla sua produzione narrativa e cinematografica, in cui viene descritta la forza violenta di una società nuova, ove i cosiddetti valori borghesi sono indicati come forme distruttive che schiacciano l’individuo togliendogli ogni forma di autentica realizzazione dei suoi sentimenti e dei suoi sogni. E chiunque abbia un ruolo educativo (genitori, docenti, sacerdoti, potenti) diventa strumento di una ideologia diffusa dai mezzi di comunicazione. Valga, in proposito, quanto Pasolini afferma sul suo Mamma Roma nell’intervista a Ferrero e Mignano per la rivista Filmcritica nel settembre 1962(3). Parlando della protagonista Pasolini afferma:

«Infatti, quando lei prende il figlio e lo porta a Roma, a casa sua, sa già benissimo quello che vuole, ha già una sua piccola ideologia, sbagliata naturalmente, confusa: ideologia piccolo-borghese che le proviene appunto dal mondo borghese, assimilato attraverso i mezzi di diffusione che tutti noi conosciamo…La televisione, i rotocalchi, i fumetti, il cinema. Quindi in lei c’è già qualcosa che in Accattone non c’era: c’è già la presenza del mondo piccolo-borghese nei suoi ‘ideali’…Fornita di questa ideologia, si getta allo sbaraglio nella nuova vita con il figlio e nasce il caos, perché la contaminazione tra l’ideologia piccolo-borghese e le sue esperienze di prostituta non possono far nascere che il caos, e qui comincia la confusione, comincia il crollo delle sue speranze, il fallimento della sua nuova vita con il figlio»(4).

Qualsiasi azione educativa contaminata dalla ideologia borghese non può che produrre effetti negativi e fallimenti.

Già nel 1947(5) Pasolini scriveva che una autentica scuola è possibile solo se condotta da docenti liberi: ma tale non è una scuola che si basa sui compromessi e si orienta verso il generico. E anticipava un problema che oggi è esploso in tutta la sua evidenza, quello della subordinazione del ruolo del docente alle intimidazioni del sistema sociale: «Non è certamente da augurarsi un educatore che debba di continuo sacrificare la sua libertà alle intimidazioni che per altri (per esempio i genitori degli alunni) sono sacre». Individuava poi tre grandi equivoci che per la loro vetustà avevano assunto l’aspetto della inviolabilità: il primo è la concezione dell’infanzia come stato incontaminato basato su una concezione cronologica della crescita dell’individuo. Occorre invece rivolgersi all’intelligenza del fanciullo, vista dinamicamente, da cui nasce la curiosità. Il secondo equivoco è costituito dalla regressione, dall’alto verso il basso, per la facilità verso il mondo dell’infanzia. Per Pasolini tale atteggiamento costituisce una vera sciocchezza: «col ragazzo bisognerebbe al contrario essere difficili», in quanto ciò che egli ricerca non è nel suo mondo. Il vero insegnamento, quello che è volto alla crescita, si basa sul risveglio nel fanciullo della coscienza della sua intelligenza, da cui nascerà la voglia di studiare. Qui Pasolini rovescia un luogo comune usuale in molti insegnanti, quando dicono che l’alunno, benché intelligente, non ha voglia di studiare. Il vero insegnamento è invece volto a stimolare la curiosità e la coscienza dell’intelligenza. Riconoscere l’alunno come intelligente, ma incapace di impegno nello studio, è proprio il riconoscimento del fallimento dell’insegnamento. Terzo equivoco la preoccupazione moraleggiante, la costante didascalica. Ma il ragazzo non ama altro che l’avventura e il sapere non è altro che l’avventurarsi nel mondo sconosciuto. Un mondo in cui le difficoltà si presentano in maniera forte ed evidente, ma nella concezione pasoliniana è il difficile che appassiona sempre il ragazzo. Di qui l’insulsaggine dei libri di testo, conformati alla morale e alle regole borghesi, espungendo qualsiasi spinta al nuovo e al diverso. E di qui l’inutilità dell’insegnamento di quei docenti che, lungi dallo stimolo all’avventura potenziando l’intelligenza degli alunni, si conformano all’acquisizione della regola fondamentale della società borghese, quella della mediocrità e della conservazione.

L’insegnamento non può che essere rivoluzionario(6), ponendosi come lavoro di liberazione e di depurazione, che provoca un continuo atteggiamento di introspezione. Ogni alunno è essere eccezionale, e la coscienza di tale eccezionalità, sua e degli altri, va coltivata e guidata dall’insegnamento, facendo in modo che egli si ponga davanti all’esistenza in stato d’animo critico e polemico: «Anzi la critica dovrebbe essere la prima cosa da coltivare in un ragazzo», con la caduta di una infinità di idoli, primo dei quali quello del docente, «il quale dovrebbe mostrarsi al suo scolaro con tutta la sua umanità immediata e quasi informe», non come una delle maschere volute dal potere nella costruzione delle gerarchie sociali e nei compiti educativi. Lo scopo dell’educazione non è l’acquisizione dei feticci, ma la creazione di una nuova cultura.

Possiamo spingerci a cogliere gli aspetti di una azione educativa non solo scolastica affrontata da Pasolini nei suoi scritti. Intanto occorre porsi l’interrogativo se esista una nuova cultura, una cultura progressiva. La risposta di Pasolini è negativa: visto che in Italia la società è borghese, ne consegue che la cultura è ancora borghese(7): compito dell’intellettuale è collocarsi nella storia umana in una volontà di rinnovamento e di rinuncia alle offerte del capitalismo. Ma non va mai perso di vista il fatto che la vera rivoluzione borghese è costituita dalla radicale trasformazione dell’umanità in borghesia, valendosi del sistema di informazione e dei meccanismi di consumo: purtroppo la grande massa di intellettuali (letterati, politici, sociologi) è animata da una «volontà restauratrice mascherata da isterica ansia di attualità». Non siamo più nel quadro di ricostruzione e rinnovamento dell’immediato dopoguerra: siamo già nel 1973 e le valutazioni di Pasolini risentono degli eventi del ’68, verso la cui pseudo-rivoluzione egli rimane fortemente critico. Il ’68 non è stata una sorgente di rinnovamento culturale radicale, ma ha permesso alla borghesia di cancellare gli elementi di ansia e di lotta del proletariato(8). Guardando alla famiglia, tradizionale centro di valori educativi, la civiltà dei consumi comporta la distruzione del suo assetto istituzionale-educativo. Con la distruzione del singolo e la sua sostituzione in uomo-massa, in seno alla famiglia l’uomo diventa consumatore e essa è «lo specimen minimo della civiltà consumistica di massa», alla base di un mondo totalmente industrializzato, «la cui unica ideologia è un neo-edonismo completamente materialistico e laico, nel senso più stupido e passivo di questi termini»(9). Non è un caso che di fronte all’acquiescenza degli intellettuali, alla trasformazione dell’individuo in uomo-massa, alla funzione della famiglia nello stritolamento dell’uomo il quale diventa mera entità consumistica, per Pasolini acquista un grande valore la figura di Don Milani, sia pure nell’odore pretigno che si porta addosso, «figura disperata e consolatrice», capace di esercitare nei confronti degli uomini e della società uno spirito critico, implacabile ed esemplare nel suo rapporto col potere centrale della Chiesa, uomo adorabile, al di sopra della meschinità del potere ecclesiastico(10). E con Don Milani tornano a prefigurarsi i valori della vera scuola e della vera educazione. Così Lettera a una professoressa è definito da Pasolini un libro straordinario, a lui piaciuto immensamente, con «una delle definizioni della letteratura più belle che io abbia mai letto, cioè la poesia sarebbe un odio che una volta approfondito e chiarito diventa amore»(11). E siamo a poca distanza dalla scomparsa di Don Lorenzo Milani. Il priore di Barbiana non viene definito come grande educatore e l’intervento di Pasolini è in molti aspetti fortemente critico: ma è chiaro che la grandezza di questo sacerdote è vista nella pienezza della sua figura educatrice e nella sua capacità di stimolare animi e pensiero verso la rivoluzione globale. Educare diventa sempre più difficile dove il consumismo tutto codifica e tutto volge alla mediocrità totale e all’accettazione di un mondo deserto di valori: la moda dei “capelloni”, inizialmente intesa come rivoluzionaria, altro non è che la ripetizione e l’accettazione di ciò che la televisione e gli slogan pubblicitari propagano(12).

Televisione e scuola dell’obbligo hanno degradato giovani e ragazzi a «schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci»(13), con il ’68 la vecchia obbedienza si è trasformata in falsa disobbedienza, consenziente all’ideologia distruttrice del nuovo modo di produzione(14), gli intellettuali italiani, da sempre cortigiani, sono sempre vissuti dentro il Palazzo(15). In un quadro del genere resta chiaro che il vero educatore non può essere il comune insegnante della scuola dell’obbligo, non l’intellettuale da Palazzo, non il sacerdote ossequiente a dogmi e dottrine imposte dal potere ecclesiale. L’educatore è figura eccezionale, le cui parole e i cui gesti vanno contro la fiumana del degrado, protesi verso un futuro frutto di autentica rivoluzione. Pasolini non ha avuto modo di conoscere gli effetti della globalizzazione, altrimenti avrebbe visto confermato il suo pessimismo e verificata la sua concezione dell’abbattimento dell’individuo operata nella società consumistica.

A questo punto possiamo affermare che Pasolini aveva ben intuito quanto fosse rivoluzionaria la vita e l’esperienza di Don Milani. Se andiamo a guardare l’esperienza di questo sacerdote anteriore a Barbiana, vi troviamo tutti i germi che portarono poi alla creazione di quella scuola tra i monti, così lontana, in un antagonismo radicale, dalla scuola borghese. Per lui la missione sacerdotale non poteva consistere in rituali religiosi asettici, ma in un impegno profondo a educare, nella concezione della cultura come lotta all’immobilismo del potere e come mezzo per sovvertire le gerarchie di classe. La serietà dell’impegno educativo vuole una scuola che fornisca seriamente all’individuo i mezzi del suo riscatto, non quale ricreazione, così come sono sistematicamente impostati le case del popolo e gli oratori parrocchiali. Il Sacerdote di Cristo non può stare alla concorrenza, impostata su gioco, biliardo, televisione, cinema («Di ciò che il ragazzo ha imparato resterà traccia e frutto per tutta la vita. Ma di ciò che ha giocato non resterà nulla»(16). L’istruzione è il mezzo di libertà dei poveri dalle loro condizioni e solo il possesso della lingua porta a comprendere la propria condizione e a capire i mezzi per superarla(17): Don Milani si trovava sulla stessa linea e sulla stessa lotta di Paulo Freire in Pedagogia degli oppressi, che non poteva egli conoscere perché la diffusione dell’opera di questo pedagogista si svolge nella prima metà degli anni Settanta. Ignoranza è schiavitù: «Conseguenza di tutto questo è che la quasi totalità degli anziani e l’88,6% dei giovani del nostro popolo è intellettualmente alla mercé di chi abbia fatto anche una sola classe oltre le elementari»(18). È l’incoscienza assoluta da parte di chi detiene il potere intellettuale, anche religioso, che confina le classi povere al loro livello di servitù, con un meccanismo per cui la mancanza di istruzione diventa il forte ostacolo all’istruirsi(19). E allora la scuola diventa un potente mezzo di riscatto dei poveri e un sacerdote che voglia far comprendere a fondo la forza del Vangelo deve farlo con la scuola(20). E se con la scuola non si potranno rendere autentici cristiani i poveri, li si potrà rendere uomini e a uomini si potrà spiegare anche la forza della parola evangelica(21). La scuola diventa così mezzo necessario e passaggio obbligato anche dal punto di vista dell’evangelizzazione, né esiste altro modo di essere parroco che nel far scuola(22). E poiché nell’ottica del Vangelo non interessa tanto di colmare l’abisso di ignoranza, ma l’abisso di differenza tra le classi sociali dei poveri e quelle degli abbienti, l’azione nella scuola popolare parrocchiale dovrà essere rivolta alle classi dei poveri(23). E la scuola per i poveri non è una scuola facile: essa deve essere volta alla elevazione degli interessi, con un lavoro continuo e una spinta fortissima all’urgente necessità di possedere la lingua, la quale fa uguali. Il gioco è escluso dall’ininterrotta comunicazione del pensiero(24). Il maestro, di conseguenza, deve avere le idee chiare sui problemi sociali e politici. Non può essere interclassista, ma schierato: «Bisogna ardere dell’ansia di elevare il povero a un livello superiore. Non dico a un livello pari a quello della attuale classe dirigente. Ma superiore: più da uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto»(25). E se andiamo a Lettera a una professoressa troviamo un’affermazione forte sulla funzione umanizzante della scuola e su quella socialmente trasformatrice del maestro. La società progredisce tramite la scuola, quella vera, quella che non ripete i dogmi della classe dominante: «La scuola è l’unica differenza che c’è tra l’uomo e gli animali. Il maestro dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualche cosa e così l’umanità va avanti. Gli animali non vanno a scuola. Nel Libero Sviluppo della loro Personalità le rondini fanno il nido uguale da millenni»(26). E la classe borghese ha il dovere di accogliere gli appartenenti alle classi meno elevate nella loro dignità e nella loro cultura, arricchendosi e trasformandosi tramite l’apporto di chi la vita l’ha costruita sul lavoro e sul sacrificio: «Ogni popolo ha la sua cultura e nessun popolo ne ha meno di un altro. La nostra è un dono che vi portiamo. Un po’ di vita nell’arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri»(27). Forse le righe più belle e profonde, quelle in cui è evidente il valore fortemente rivoluzionario della scuola e il compito innovatore di chi insegna, Don Milani le ha scritte nella sua Lettera ai giudici (datata 18 ottobre 1965), che spiegava la sua lettera ai cappellani militari, per cui fu incriminato:

«La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede tra passato e futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato di formare il loro senso della legalità (e su questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione)»(28).

La scuola non è insubordinazione, la scuola è trasformazione volta al miglioramento politico e sociale. Quale è quindi il compito dell’educatore, soprattutto se sacerdote? È quello di rivolgersi alle classi povere, consentendo loro l’uso della Parola, intesa non solo come capacità di intendere il linguaggio e di esprimersi nel linguaggio, ma anche come possibilità di acquisizione degli elementi del sapere, perché solo con la Parola il mondo può cambiare, superando la rigida divisione delle classi. Né può avvenire, per Don Milani, quello che Pasolini indica come avvenuto, cioè la riduzione di tutti gli individui a borghesia dominata dal consumismo. L’amore, inteso in senso evangelico, è la forza che, volta al futuro, porterà a un nuovo assetto sociale. Di qui l’educatore, valendosi della conoscenza del passato, si volge al futuro: è quindi un profeta che nell’incontro con gli educandi indica il senso della speranza.

Andando in particolare sul ruolo di educatore proprio dell’insegnante, dobbiamo porre come prima questione la necessità che egli si ponga di fronte ai discenti come auctor, il cui significato è legato a quella del verbo augeo: l’auctor è detentore di una autorità che non nasce da una determinata carica conferitagli dal sistema sociale, ma gli proviene dall’essere per i propri alunni una fonte di nascita, di vita, di crescita, capace di ricercare insieme a chi gli è affidato il senso delle cose, della vita, dell’universo. Insieme: l’azione educativa è ricerca comune di insegnante e allievo, giammai imposizione di schemi, regole, norme dati come immutabili, incontrovertibili, verificabili. Già autori dell’Ottocento, di stampo liberale, avevano affermato che nel rapporto con i giovani non esistono verità da imporre, ma solo verità da ricercare insieme. Ci basti citare Francesco De Sanctis, il quale afferma:

«Il meno che un giovane possa domandare alla scuola è lo scibile, anzi lo scibile è lui che dee trovarlo e conquistarlo, se vuole sia davvero cosa sua. Ciò che un giovane dee domandare alla scuola è di essere messo in grado che la scienza la cerchi e la trovi lui. Perciò la scuola è un laboratorio, dove tutti sieno compagni nel lavoro, maestro e discepoli, e il maestro non esponga solo e dimostri ma cerchi e osservi insieme con loro, sì che attori sieno tutti, e tutti sieno come un solo essere organico, animato dallo stesso spirito»(29).

Insieme non vuol dire che i giovani e gli adulti debbano perdere la loro identità. Uno dei problemi fondamentali della società attuale è costituito dall’abdicazione degli adulti, gravissimo errore di genitori e insegnanti. Quando si abdica dal proprio ruolo di adulto si lascia il giovane senza un preciso punto di riferimento, che può essere, anzi deve essere, anche di contrasto, perché la crescita della vita e della società si può realizzare solo nella dialettica tra giovani e adulti e quindi nel contrasto tra generazioni. E l’adulto deve saper anche far valere, di fronte a certe situazioni e a certi comportamenti, il proprio “no”, naturalmente aperto al confronto. In educazione devono esistere certi confini, che il giovane cercherà di superare, ma tale superamento dovrà nascere dalla riflessione su ciò che costituisce il sentiero dell’esistenza. Un genitore e un insegnante che rinunciano a tale compito ottenebrano nel figlio e nell’allievo la volontà della ricerca e li gettano in balia di modelli di comportamento imposti dai vari potentati dominanti.

In educazione, poi, non esiste solo la parola. Non vanno sottovalutati altri mezzi, con cui ci si pone in un dialettico rapporto con l’educando. Lo sguardo, ad esempio. Un genitore o un insegnante che non sanno guardare negli occhi i giovani a loro soggetti si precludono una via essenziale dal punto di vista educativo. Il giovane ha bisogno di incontrare lo sguardo dell’adulto, leggendovi indicazioni e reazioni al suo comportamento. E l’adulto deve saper cogliere nello sguardo di chi con lui cammina bisogni, domande, riflessioni, reazioni. Occorre che adulti e giovani camminino insieme incrociando costantemente i loro sguardi, in una ricerca comune nel sentiero della vita. Un altro elemento fondamentale in educazione è la luce del sorriso. Chi si illude di educare con ciglia aggrottate, l’espressione cupa, l’atteggiamento sarcastico non educa, anzi allontana da sé costantemente chi gli è affidato. Occorre che il giovane trovi sempre, anche in momenti difficili, anche in situazione di incomprensione, nell’espressione dell’adulto un sorriso sempre aperto: il “no” educativo va sempre illuminato dal sorriso affinché non si trasformi in un dramma, creando un inconciliabile e profondo abisso. In educazione non esiste poi il sarcasmo: qualsiasi situazione complessa va affrontata con l’ironia, svuotando il dramma dalla sua tensione e riportando ogni forma di contrasto in un atteggiamento di distacco privo di tensione. Saper sorridere e saper ridere è un’arte necessaria a chi educa. Comunque, a quello che abbiamo definito il “no” educativo va fatto un ricorso estremamente moderato e solo in casi fortemente necessari, ma rarissimi. In educazione non si nega, si propone. Le staccionate del sentiero della vita vanno indicate e va indicata l’incognita presentata dal loro superamento, ma sempre in forma propositiva e tale da suscitare la comprensione del problema e la riflessione su di esso. Sguardo, sorriso, ironia tengono lontane brusche e coercitive imposizioni. Occorre sempre aver presente che l’educazione non si fa con i “no”, ma con la ricerca comune del sentiero più adatto nell’intrico del bosco. Uno dei principali e indispensabili mezzi di educazione è l’ascolto. Non si schiaccia l’educando con fiumi di parole e con presunte verità. Lo si ascolta, e si ascoltano le sue osservazioni e le sue aspirazioni. Il cammino dell’educazione è sempre e comunque dialogico: e nel dialogo occorre ascoltare e capire ciò che l’altro ci sta proponendo. Il primo presupposto professionale di un bravo maestro è la convinzione con non è solo lui che insegna, ma che egli stesso apprende dai propri alunni. E per apprendere deve saperli ascoltare nel silenzio. Si cresce insieme e insieme si scoprono nuovi orizzonti. La vera educazione non regge su una verità data dall’educatore, ma su una crescita comune con l’educando, in cui ognuno ha da insegnare e da imparare dall’altro. Educare è come vivere: una avventura continua, in cui occorre non fermarsi mai. Ho sempre insistito molto e continuo a insistere sull’avventura costitutiva del processo educativo:

«Quello dell’insegnamento e dell’educazione è comunque un mondo pervaso dal senso dell’avventura, è una grande scommessa e una grande avventura. Vale per il genitore, vale per il maestro. Si percorre insieme un sentiero spesso tortuoso, tra boschi e prati, ma anche tra rovi e sterpi. L’adulto non funge da guida: la ricerca è comune, la scoperta è reciproca. L’adulto conosce più fiori, più stelle, ma anche più pericoli di quanti ne conosca il giovane: mette la sua esperienza al servizio della vitalità del giovane, e di passo in passo ambedue scoprono la ricchezza dell’altro»(30).

Nel procedere di questa avventura sempre aperta, nell’ambito della scuola due sono gli elementi fondamentali necessari al maestro: da una parte una profonda e attiva competenza professionale, in cui si sommano i dati della conoscenza con le competenze pedagogiche non fondate sulla imitazione di chi ci ha preceduto, dall’altra una grande e profonda umanità, acquisita attraverso una ricerca continua che non accetta le regole già date. Il maestro prende per mano l’alunno in un percorso verso l’ignoto: qui la regola è morte. Non che non debbano esistere le regole, ma esse vanno rifondate continuamente man mano che il sentiero s’intrica sempre più nel fitto e nel buio del bosco. La vera regola è quella generata dalla vita che, generandola, la supera continuamente. Occorre avere sempre coscienza che non esiste la regola, non esiste la barriera, non esiste il confine: la vita è un continuo viaggio per terre sconosciute alla ricerca del fiore che nessuno conosce. Occorre, in questo cammino dell’avventura, che il maestro sia prima di tutto un uomo che ha vissuto e ha saputo vivere, anche con i propri sbagli, ma sia stato capace di rendere sua ogni esperienza e di saperne trovare gli elementi costitutivi, positivi o negativi che siano. E, riandando alla sua ricchezza di esperienze, convinto che sbagliare è comunque vivere, sarà il maestro a lasciare libero l’alunno di individuare il proprio sentiero: sta qui l’amore su cui deve essere basata qualsiasi forma di educazione, nel fornire a chi si educa una ricchezza che porterà nella sua crescita qualsiasi ne sia il percorso(31). Un genitore e un maestro che amano sanno che il momento in cui i figli e gli allievi si distaccheranno da loro sarà un momento di compiutezza d’amore, perché tutto ciò che hanno saputo dare si conserverà nella mente e nel cuore di chi ha appreso. E vale quanto appuntava Don Milani poco prima di morire:

«Io non ho mai fatto a nessun ragazzo quello che fanno a me e passo la nottata ad ammirarli (a D. R. Bensi, 18 maggio 1967)»(32).

Si può obiettare a questo punto che ci stiamo basando su un concetto ormai non più attuale di educazione e di scuola, in quanto la pervasione della globalizzazione comporta nuovi problemi e nuove risposte. In effetti la società liquida, così come viene descritta e analizzata da Zygmunt Bauman(33), strutturata su uno sciame inquieto di consumatori e sulla miseria degli esclusi, riduce i giovani a un bidone di rifiuti per l’industria dei consumi, creando in loro insicurezza, solitudine, inadeguatezza. Nella caduta della tensione generazionale i giovani si ritirano in ciò che viene loro offerto, facendo cadere ogni anelito alla ricerca di una autentica libertà, di una efficace costruzione del futuro, del vero fiore da scoprire. E ciò che viene loro offerto è il mondo inautentico dei social, l’alcool, la droga, il denaro facile, il sesso senza amore. Per l’industria dei consumi una scuola e una educazione volte al futuro tramite la ricerca faticosa di un mondo diverso non hanno alcun valore né possono giocare un ruolo positivo nell’incremento dei consumi. L’homo consumens, frutto della liquidità sociale, non ha nulla a che vedere con l’homo viator, pellegrino e viandante sempre aperto all’avventura del futuro, sempre proteso alla ricerca del nuovo, sempre pronto a nuove scoperte.

Certo, è proprio nell’homo consumens, funzionale alla società liquida, che ritroviamo quella abdicazione dell’adulto di cui abbiamo parlato. E con l’abdicazione dell’adulto abbiamo l’abdicazione dell’atto educativo, che si disgrega e si annulla, e della scuola, che diventa solo trasmissione di strumenti, quali i metodi di approccio ai social, lo studio della lingua imperante, l’adeguamento alle strutture sociali. Cantano forte, a questo punto, le sirene di morte, creando in genitori e in docenti il senso sconfortante della inutilità dell’azione educatrice. Il loro canto ammaliatore si effonde in ogni angolo del mondo, ci segue in ogni attimo della nostra giornata, riempie non solo il nostro orecchio, ma anche il nostro sguardo di potenti allettamenti. Nel villaggio globale che esse stesse hanno costruito esse ingannano gli uomini, rendendoli schiavi dei loro interessi e delle loro catastrofiche ideologie.

A questo punto educazione e scuola vanno viste sotto una diversa angolazione, nella funzione indilazionabile che a loro spetta. Funzione di ribellione totale al canto delle sirene, di continua e instancabile lotta alla loro falsità, di abbattimento e sovvertimento dei miti del presente. In particolare la scuola, se vuole conservare la sua funzione educativa, non può soccombere a pressioni di certi genitori, a torto convinti di essere detentori di verità, e di certi governanti, uomini asserviti al sistema economico. Una scuola è sempre contro il deterioramento dell’individuo e, così come lo ha individuato Bauman, particolarmente del giovane, contro ogni forma di asservimento al sistema, contro l’imbruttimento dei costumi, contro il depauperamento economico e spirituale. La scuola forma gli uomini del no. La scuola è luogo di speranza, in cui non contano l’apparire né la competizione né l’asservimento, ma in cui si vive e si vive nel profondo dell’essere. Nella scuola si canta un canto nuovo. In un discorso tenuto per celebrare nel 2010 i 150 anni del Liceo “Laura Bassi” di Bologna, così mi rivolgevo ai docenti:

«Si educa al futuro: il che vuol dire impegnarsi attivamente a scoprire i segni di tale futuro, le tracce che ci portano ad esso. E questo presuppone una instancabile azione di aggiornamento, di costante revisione critica del proprio agire ed operare, di lettura e di riflessione. Presuppone il coraggio di prendere una posizione che sia al di fuori delle certezze istituzionali, che si ponga come crisi di fronte alla stasi istituzionale, che rivoluzioni la struttura per maturare e liberare la persona…Senza dimenticare che il futuro è avventura, è scommessa, è rischio»(34).

Ad un anno dalla sua morte il grande pedagogista brasiliano Paulo Freire pubblicava «il libro-testamento della sua presenza del mondo», Pedagogia dell’autonomia(35). Freire, brasiliano, coerentemente da quando ha cominciato ad occuparsi di educazione, pubblicando La pedagogia degli oppressi (1968), ha sempre sostenuto la forza rigeneratrice e trasformatrice di una educazione fondata su un dialogo volto a unire e liberare, offrendo agli oppressi condizioni per cui essi possano esercitare un atto di adesione alla prassi vera di trasformazione della realtà ingiusta. E, tornando a Bauman, non è ingiusta la modernità liquida, che ha ridotto l’individuo a homo consumens e il giovane a schiavo di un vuoto senza luci? Il testamento di Freire si pone con forza contro la pratica educativa fomentata dai consumi, quella per cui l’educando va adattato a una realtà che non può essere cambiata e per cui ciò che conta è l’addestramento tecnico attraverso il quale possa essere messo in grado di adattarsi alla sua sopravvivenza. Freire afferma con forza che Pedagogia dell’autonomia «è un deciso no a questa ideologia che ci nega e ci rende meschini come persone»(36).

E allora di quale insegnante si ha bisogno per una scuola capace di andare contro questa società liquida? Un insegnante che sa che insegnare è apprendere, un insegnante che non trasferisce conoscenze, un insegnante profondamente e riccamente umano. Il grande compito dell’insegnante «non è trasferire, depositare, offrire, donare l’intelligibilità delle cose, dei fatti, dei concetti, all’altro considerato come una sorta di paziente del suo pensare. Il compito coerente dell’educatore che pensa correttamente è quello di sfidare…l’educando, con cui è in comunicazione e a cui comunica, a produrre una sua comprensione di quanto gli viene comunicato»(37). E in una società in cui la pratica pedagogica è svilita e mortificata, l’educatore non può non sviluppare in sé la premura amorosa verso gli educandi, né abbandonare una lotta continua e consapevole contro chi arreca offesa all’educazione, nella convinzione che il cambiamento è possibile e la speranza guida l’azione educatrice(38). Poi, se l’insegnante vuole aiutare i giovani ad uscire dal vuoto loro creato dalla attuale situazione sociale, deve aiutarli a superare la loro ignoranza, ma per raggiungere tale scopo deve superare continuamente la propria ignoranza. È nell’esempio, che non ammette distanza tra quanto si dice e quanto si fa, la grande forza dell’insegnamento(39). Un insegnamento che mai, comunque, può accettare di creare schiavi per una società che genera disoccupati, che vuota il futuro negando la speranza, che fa dell’individuo solo un’entità di consumo. Una scuola che abdica è la scuola di una società morta.

NOTE

(1) Cito in particolare Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano, 2013, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Milano, 2015, Il segreto del figlio. Da Edipo al figlio ritrovato, Feltrinelli, Milano, 2017.

(2) Da Edipo al figlio ritrovato, p. 100.

(3) Ora in Tutte le opere. Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, Mondadori, Milano, 2001, pp. 2819-2835.

(4) Ivi, pp. 2819-20.

(5) Scolari e libri di testo, ne Il mattino del Popolo, 26 novembre 1947.

(6) Scuola senza feticci, ivi, 25 dicembre 1947.

(7) Vedi Un intervento rimandato, nel numero unico dedicato al Primo Congresso della Federazione Comunista di Pordenone, 1949.

(8) Vedi Prologo: E.M., in Nuovi Argomenti, 31, gennaio-febbraio 1973, come prologo a Otto domande sull’estremismo.

(9) Nella Prefazione a Divorziare in nome di Dio, a cura di Francesco Perego, Marsilio, Venezia-Padova 1974.

(10) Don Lorenzo Milani: Lettere alla mamma, in Tempo, 8 luglio 1973.

(11) La cultura contadina della scuola di Barbiana, in Momento, IV, 15-16 gennaio 1968.

(12) Contro i capelli lunghi, Corriere della sera, 7 gennaio 1973.

(13) Abiura della Trilogia della vita, Corriere della sera, 9 novembre 1975.

(14) Pannella e il dissenso, Corriere della sera, 18 luglio 1975.

(15) Fuori dal Palazzo, Corriere della sera, 1 agosto 1975.

(16) Esperienze pastorali, 1958, ora in Tutte le opere, Mondadori, Milano, 2017, pag. 147.

(17) ivi, pp. 198-9.

(18) ivi, pag. 205.

(19) ivi, pp. 205 e segg.

(20) ivi, pag. 222: «Ecco perché per ora non faccio con convinzione altro che scuola».

(21) ivi, pag. 223: Dio «Mi ha affidato un Libro, una Parola, mi ha mandato a predicare ed io non me la sento di dirgli che ho predicato quando so con certezza che per ora non ho predicato, ma ho solo lanciato parole indecifrabili contro muri impenetrabili, parole di cui sapevo che non sarebbero arrivate e che non potevano arrivare».

(22) ivi, pag. 224.

(23) ivi, pag. 246.

(24) ivi, pag. 265: «Purché si avvicini la gente su un livello da uomo, cioè a dir poco un livello di Parola e non di gioco. E non parola qualsiasi di conversazione banale…Non parola come riempitivo di tempo, ma Parola scuola, parola che arricchisce».

(25) ivi, pag. 267.

(26) Lettera a una professoressa, 1967, ora in Tutte le opere, pag. 774.

(27) ivi, pag. 777.

(28) ivi, pag. 943.

(29) Francesco De Sanctis, «La scuola», in Nuova Antologia, 1872, vol. XX, ora in L’arte, la scienza e la vita, in Nuovi saggi critici, Einaudi, Torino, 1972, pag. 305.

(30) Felice Signoretti, La sfida dell’educazione e la scuola, in Scritti e interventi, Mannarino, Brescia, 2017, pag. 113.

(31) «Perché, come sa chi esercita la professione di Docente, la più bella e la più difficile, insegnare non è ripetere, non è imporre, non è dispensare verità. È la scoperta continua di nuovi orizzonti, la proposta umile di possibili percorsi, la crescita comune verso il dubbio», Felice Signoretti, Per lo studio della musica, ivi, pag. 105.

(32) In Tutte le opere, cit., pag. 1346.

(33) Vedi, tra l’altro, Bauman, Mazzeo, Conversazioni sull’educazione, Erickson, Milano, 2011; Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2002.

(34) In Scritti e interventi, cit., pag. 138

(35) Ripubblicato, a 10 anni dalla prima edizione italiana, Pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2014.

(36) Ivi, pag. 22.

(37) Ivi, pag. 36.

(38) Ivi, pag. 58.

(39) Ivi, pp. 77-123.

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