RETROTOPIA: L’AMARO TESTAMENTO DI BAUMAN

di Roberta Merighi

L’ultimo libro che Zygmunt Bauman, il sociologo della “Modernità Liquida”, ci ha lasciato (pubblicato postumo per i tipi Laterza) ha l’illuminante titolo di Retrotopia, un neologismo con cui egli ci indica una utopia che non riguarda il futuro, ma è rivolta al passato. Si tratta della tendenza attuale a rivalutare difensivamente il passato a fronte di un presente e di un futuro incerti perché, come Bauman dice nella sua introduzione al libro, «il cammino a ritroso, verso il passato, si trasforma in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente». A tale proposito egli ci rimanda, rovesciata, l’immagine dell’Angelus Novus della Storia di Walter Benjamin il cui volto non è più rivolto al passato mentre è sospinto dalla tempesta del progresso verso il futuro, ma è rivolto al futuro mentre anela al passato.

Mentre il futuro si è sempre collocato nell’area del possibile in cui tutto può accadere ed essere forgiato e il passato nell’area del già avvenuto e perciò dell’immutabile, oggi assistiamo a un cambio di paradigma: il passato può essere ancora plasmato in reinterpretazioni infinite, talvolta rassicuranti, rivalutato per molteplici aspetti, mentre il futuro si colloca in un ignoto a cui non appartiene più l’utopia.

Come questa «epidemia globale di nostalgia» ha preso il posto «della smania per il progresso»?

Molte sono le tesi che Bauman ci fornisce nel corso del libro, in larga parte riconducibili proprio agli effetti di quella modernità liquida a cui ha dedicato tanta attenzione, la cui storia è, secondo l’autore, un lungo processo di liquefazione di tutti quei corpi solidi (istituzioni e organizzazioni politiche, sociali ed economiche) che le società avevano precedentemente costruito e che si erano solidificati nel corso del tempo attraverso conflitti e lotte. Questa liquefazione ha comportato l’allentamento dei legami sociali e solidali, premessa di emancipazione, e ha lasciato al loro posto delle soggettività molteplici volte a modelli di vita individualistici e consumistici.

L’avvento della globalizzazione e la separazione tra il potere e la politica, che ha abdicato al suo ruolo storico di mediare i processi del lavoro, hanno caricato sulle spalle della maggior parte degli individui il peso del proprio destino, la responsabilità di ogni successo e di ogni fallimento.

Anche l’idea di progresso si è profondamente modificata perché oggi evoca timori legati alla possibile introduzione di nuove tecnologie che possono rendere obsoleto o superfluo il lavoro umano.
Bauman analizza quattro tipi di retrotopie in quattro diversi capitoli del libro.

Ritorno a Hobbes? È il primo esempio di retrotopia che Bauman ci fornisce, domandandosi se siamo in presenza di un ritorno alla situazione precedente alla fondazione dello Stato, in cui tutti competono con tutti e la vita è insicura. Infatti il Leviatano, ovvero lo Stato, ci dice l’autore, non ha saputo assolvere alla missione attribuitagli e «il processo di socializzazione» ha solo nascosto la vera natura e/o predisposizione alla violenza dell’uomo. Lo Stato odierno, poi, lontano dall’idealtipo weberiano, non ha il monopolio dell’uso legittimo della forza perché nell’era della globalizzazione economica e del neoliberismo, potere e autorità sono scisse. Ne consegue che non solo lo Stato non traccia una netta linea di demarcazione tra uso legittimo e illegittimo della forza, ma non è in grado di difendere i propri cittadini esponendoli anche a violenza esterna.

La presenza di tanti piccoli Leviatani inadatti alla funzione sostitutiva dello Stato apre la strada alla seconda retrotopia: il ritorno alle tribù. Alle comunità, cioè, in cui riconoscersi, regressivamente, in un “noi” contrapposto a un “loro”, in cui credersi “migliori” nel rifugio di tradizioni reinventate, pronti a erigere muri per lasciare gli “altri” fuori. Ignorando la responsabilità verso i fenomeni migratori inarrestabili e l’interdipendenza che la globalizzazione impone.

Altro grande «affluente del fiume in piena del ritorno ad Hobbes» è il ritorno al grembo materno, il «ritorno al sé» direttamente connesso all’allentamento di quei legami fra gli individui che storicamente hanno consentito processi di emancipazione collettiva. La conseguenza sono la concorrenza/rivalità fra individui, il ripiegamento verso consumi narcisistici in una solitudine auto-procurata, incentivata anche dalle nuove tecnologie informatiche che invece di aprirci alla conoscenza del mondo altro vengono usate come protezione dalle dissonanze.

Bauman non nutre speranze che i fiumi in piena di queste due retrotopie sopra ricordate possano prosciugarsi.

Il ritorno alla disuguaglianza è un ritorno non programmato, «un effetto accidentale e inatteso» della rottura di quel patto fra Capitale/Lavoro e Stato che aveva permesso il dispiegarsi del «trentennio glorioso» del secondo dopoguerra.

L’aumento delle disuguaglianze sociali non è solo attestata dagli indicatori economici, ma è sentita come «privazione relativa», cioè come scarto tra aspettative e risultati personali reali, da chi vede un peggioramento delle proprie condizioni di vita. E questo sentimento provoca rancore fra i diversi gruppi sociali.

Come ovviare, secondo Bauman, alla sofferenza causata dall’approfondirsi della disuguaglianza e al rancore inter-gruppo che il senso di privazione relativa stanno producendo?

Col ritorno – è anche questa una retrotopia? – agli assunti universalistici di partenza del welfare state, progressivamente abbandonati, cioè a quel diritto di cittadinanza che lo Stato deve assicurare a tutti i suoi cittadini per renderli liberi dal bisogno. Bauman si spinge a difendere la necessità del reddito universale di base slegato da qualsiasi workfare, unico strumento che può dare una risposta al problema della scomparsa del lavoro indotto dalle nuove tecnologie.

In questa opera troviamo molti topos già visti nei lavori precedenti di Bauman ma, differentemente che altrove, non sempre trattati con il distacco del sociologo; anzi, qui troviamo il pathos, la preoccupazione di chi vede che le cose hanno preso una piega diversa e che l’umanità sta correndo verso la catastrofe.

È con quest’opera amara quindi che Bauman si congeda. Un’opera però che è anche un invito a noi tutti, normali cittadini, ad agire immediatamente per cambiare il corso degli eventi.

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