FAR FIORIRE IL DESERTO (parte 2)

Sono in un appartamento di Tel Aviv. Seduti davanti a me ci sono Tom  e Schlomo, due giovani attivisti israeliani. Discutiamo da un’ora su ciò che meno conosco e comprendo, ovvero il punto di vista israeliano sull’occupazione. Occupazione che viene ridotta, anche lessicalmente, a conflitto, termine che suggerisce uno scontro tra attori sullo stesso piano. Alla fine, poi, il conflitto stesso viene normalizzato, diventa una quotidianità indifferente e allo stesso tempo si allontana, si fa silenzioso, viene digerito e interiorizzato.

L’intera società israeliana è pervasa dalla guerra, anche al suo interno. Il militarismo è l’altra faccia del sionismo. La mobilitazione totale ne è condizione necessaria. Schlomo racconta: «L’esercito è una presenza costante agli occhi dei bambini. Ricordo un gioco, alla materna, che consisteva nel collegare un’immagine ad un’altra immagine della stessa categoria. C’era un fucile disegnato, e bisognava tracciare una riga che portasse ad una colomba o ad un ramo d’ulivo. Alle elementari invece ci facevano scrivere letterine di ringraziamento ai soldati, e preparavamo per loro dei dolcetti da portare in caserma. Alle superiori spesso il supplente era una soldatessa che ci raccontava l’importanza e la bellezza di servire il proprio Paese».
Prosegue Tom: «L’esercito è la cosa più sacra, è intoccabile, non si può criticarlo in nessun modo. Ancora oggi, gli obiettori di coscienza possono evitare la leva obbligatoria solo per ragioni di salute o di salute mentale. Sennò vai in carcere, finché non vieni considerato non idoneo al servizio militare. Senza contare le pressioni familiari e sociali che devi subire se decidi di non prendere parte alle politiche di questo Stato di Apartheid».

Insisto, chiedo come sia possibile questo consenso così ampio intorno ad un disegno criminale che va avanti, imperterrito, da decenni. Tom ha una sua tesi al riguardo: «C’è un lavaggio del cervello costante che sfrutta il concetto di sicurezza. Parlare di continuo di sicurezza fa nascere la paura, e con la paura si può fare di tutto». Mi cita una frase attribuita nientemeno che a Herman Goering: «Ovviamente, la gente non vuole la guerra. Perché mai un contadino pezzente dovrebbe rischiare la vita in guerra quando il massimo che ne può ottenere è tornare alla sua fattoria tutto intero? Naturalmente, la gente comune non vuole la guerra; né in Russia, né in Inghilterra, né America, e per quello neanche in Germania. Questo è ben chiaro. Ma, dopo tutto, sono i capi della nazione a determinarne la politica, ed è sempre piuttosto semplice trascinare la gente dove si vuole, sia all’interno di una democrazia, che in una dittatura fascista o in un parlamento o in una dittatura comunista. […] La gente può sempre essere condotta ad ubbidire ai capi. È facile. Si deve solo dirgli che sono attaccati e accusare i pacifisti di mancanza di patriottismo e di esporre il paese al pericolo. Funziona allo stesso modo in qualunque paese».

2011palestinan_map1-300x204Non basta. Tom aggiunge, con voce ferma, che «in realtà la maggior parte degli Israeliani non è estremista come i coloni. È solo apatica: gli Israeliani impiegano moltissime fatiche e sforzi continui nel non volere vedere». Schlomo mi racconta allora della sua personale presa di coscienza: «Sono nato in kibbutz. Tutti erano molto militaristi e molto sionisti, lì dentro. Un giorno, ero ancora un bambino, vidi un villaggio abbandonato, poco lontano dal mio kibbutz. Cominciai a chiedere in giro perché quelle case fossero vuote, sembrava che non ci vivesse nessuno da decine d’anni. Nessuno mi rispondeva, sviavano le mie domande o mentivano. Fu allora che compresi che c’era qualcosa di nascosto, qualcosa di cui non si poteva parlare. Quello era uno dei villaggi ripuliti durante la Nakba, i cui abitanti e i loro discendenti vivono, forse, in un campo profughi da qualche parte, senza poter ritornare». Continue reading

FAR FIORIRE IL DESERTO (parte 1)

“Nella gola del serpente
fa un buio pesto
scommetto che è per questo
che non vediamo niente”
Il Teatro degli Orrori, L’impero delle tenebre

Tel Aviv è una splendida cecità. La guerra è lontana, l’occupazione sembra distante, in un’altra dimensione, in un’altra epoca. In verità, si spara a poche decine di chilometri, ma qui è tutto attutito, la città è protetta da una cappa di luce artificiale, percepisco come un filtro, un silenziatore posato sulle villette a schiera e i giardini ben curati.
Le immagini di un’Occidente tollerante ed opulento scaturiscono da ogni angolo, ma la quotidianità dei Territori Occupati, una quotidianità ancora vivida nella mia memoria, genera un contrasto insopportabile con questa che mi sembra una realtà di carta, ho nelle orecchie una cacofonia continua, un senso di nausea in gola. È il mito della caverna di Platone applicato allo spazio urbano: una sfilata di belle figurine viene proiettata continuamente sulle pareti della grotta, e la grotta stessa è rivestita da una carta da parati che raffigura spiagge dorate e grattacieli.
A Tel Aviv non vedrete scritte sui muri contro il sistema, niente falci e martelli né “la legge è illegale”, ma bombolette che disegnano stelle di David e raccontano di orgoglio nazionale.

Il memoricidio ha raggiunto gli obiettivi prefissati: Yafo, delizioso e pittoresco quartiere di Tel Aviv, aveva 120000 abitanti palestinesi prima della Nakba. Dopo la pulizia etnica, ne rimasero circa 3900, molti fuggirono via mare, fino a raggiungere Gaza. Yafo si chiamava Giaffa, i suoi pompelmi sono oggi un simbolo israeliano, le sue case, distrutte durante i bombardamenti e le deportazioni e in seguito ricostruite, divennero abitazioni per artisti ebrei. Continue reading

AL-KHALIL

Al-Khalil, Hebron in ebraico, è l’apice della contraddizione, tra contrapposizione e mescolamento, tra esclusione e scontro. Il significato etimologico del nome di questa città, situata a 30 chilometri a sud di Gerusalemme, è “Amico”, in arabo come in ebraico. Un luogo straziato da odi viscerali ma che, ossimoro vivente, richiama ad una fratellanza che non c’è. Al-Khalil è un tappeto che ricopre i colli tipici del sud della Cisgiordania, è un saliscendi continuo, una città ondulata, una città ardua. Qui vivono più di 200000 Palestinesi e tra i 500 e gli 800 coloni israeliani, “protetti” da almeno 2000 soldati delle forze di occupazione. Qui l’esperimento dello Stato sionista di esclusione degli indesiderati ha raggiunto il livello più alto di perfezionamento, è aperto, palese, eloquente.

Il 25 Febbraio 1994, Baruch Goldstein, colono di origine statunitense, aprì il fuoco all’interno della Moschea di Ibrahim e uccise 29 Palestinesi in preghiera, ferendone 125. Fu sepolto nella a Kiryat Arba, colonia illegale che è una lama di coltello che lambisce la città e vi penetra dentro; sulla sua tomba c’è scritto “Al santo Baruch Goldstein, che diede la sua vita per il popolo ebraico, la Torah e la nazione di Israele”.

Da allora, la città fu divisa in due zone: H1, sotto il controllo palestinese, e H2, sotto il controllo israeliano. Quest’ultima sezione, che comprende il centro storico della città, è abitata da decine di migliaia di palestinesi, che anno dopo anno si vedono costretti ad abbandonare la loro abitazione. Parlare di restrizioni è un eufemismo: solo per fare qualche esempio, essi subiscono ogni il divieto di transito in automobile, i checkpoint per entrare e uscire dall’area come anche quelli all’interno, la chiusura di centinaia di negozi, strade sbarrate da muri e filo spinato. La sensazione immediata che ho è di passeggiare per una città fantasma, svuotata ed esangue, il cui confine non è stato tracciato ma innalzato, barriere di cemento armato che soffocano le arterie di un corpo agonizzante.

Shuhada Street, la strada dei martiri, è l’emblema di questa follia. I negozi che si affacciano su questa via sono sbarrati, e sui loro portoni sono evidenti le stelle di David disegnate con la bomboletta dai coloni; su uno, in particolare, si legge chiaramente “Gas the Arabs”. È un déjà vu che gela il sangue.

Nel bel suq che si articola per le stradine poco distanti c’è un non so che di inquietante: alzo lo sguardo e vedo una grata sopra alla mia testa, a tre metri di altezza, piena di spazzatura. I coloni hanno occupato i piani superiori degli edifici e gettano sui passanti ogni sorta di oggetti, sassi, spazzoloni per il gabinetto, rifiuti di tutti i tipi, feci. Vedo anche un paio di bottiglie di vino. Tra le architetture arabeggianti spunta improvvisa una torretta militare: ce ne sono a non finire, conficcate sui muri delle case, spesso a segnalare la presenza di una base dell’esercito. Siamo in pieno centro urbano, e innumerevoli sbarramenti amputano spazi ed edifici strappandoli agli abitanti per cederli a coloni e soldati. Continue reading