MAROCCO: 3000KM INDIETRO NEL TEMPO

29 Luglio. 5.30 del mattino. Aeroporto di Marrakech.
Ad attenderci dovrebbe esserci Alì. Un simpatico marocchino che abbiamo contattato via web. Parla perfettamente italiano. Al telefono, durante le varie occasioni in cui ci siamo sentiti negli ultimi giorni, era gentilissimo e disponibilissimo. Non ha voluto neanche un euro di anticipo. E dovrebbe essere la nostra guida per i primi 900km di questo viaggio. Ci accompagnerà nel deserto del M’Hamid, vicino a Zagora.

Non ci era (quasi) mai balenata in testa l’idea che ci stesse fregando. O che non si sarebbe mai presentato fuori dall’aeroporto con il cartello “Matteo Busà”, come avevamo accordato.
Eppure erano le 5.30, noi eravamo atterrati da ormai un’ora. E di Alì neanche l’ombra. Di cartelli neppure. Lo sguardo fisso all’orizzonte. Il cuore che sobbalza ogni volta che una Jeep sbuca dalla curva. Ma niente di niente. Si fanno le 7.30. Ormai sono quasi tre ore che chiamiamo Alì al telefono e non riceviamo risposta. Basta. È giunto il momento di prendere atto del fatto che il Marocco ci ha dato il suo benvenuto. Siamo rimasti a spasso. Andiamo in centro a Marrakech con un bus e vediamo di trovare un’alternativa. Prima però è d’obbligo un selfie. Noi quattro e il salame che Alì ci aveva chiesto di portargli dall’Italia come regalo. Lo inviamo via WhatsApp alla nostra guida, con la didascalia “Che delusione. Non ci si comporta così!”. Che si senta in colpa, almeno!

La Piazza Jamaa el- Fna, la famosissima Piazza di Marrakech, alle 8.30 ancora dorme. Passano solo alcune macchine e qualche asino. Ci sediamo nell’unico bar aperto. E facciamo la nostra prima colazione marocchina, a base di caffè, succo d’arancia, pane e omelette. 1,50€ a testa.
Cosa facciamo ora in questi due giorni in cui avremmo dovuto essere nel deserto? Riusciremo a organizzare una cosa uguale con un’altra agenzia nel giro di un’oretta? Ci attacchiamo al primo WiFi e… 8 chiamate senza risposta su WhatsApp da parte di Alì. Lo chiamiamo al volo. Appena risponde inizia a urlare. “Scusate, scusate, scusate! Perdonatemi! Sono davvero senza parole. Sono mortificato!”. Veniamo travolti dal suo evidente dispiacere. Il suo assistente, che doveva venirci a prendere, aveva capito male l’orario di arrivo. Ed era ora in aeroporto ad aspettarci. Tutto è bene quel che finisce bene. Noi nel giro di qualche istante ritroviamo l’entusiasmo, che si era leggermente ammosciato a causa di questa partenza in salita. Ci gustiamo la nostra colazione come si deve. Ed intanto la nostra auto arriva a prenderci. Si parte! Il deserto è a 450km di distanza. Ci aspetta un lungo viaggio!

Nel giro di due ore raggiungiamo Alì, che ci carica sulla sua macchina. Da ora in poi sarà lui ad accompagnarci. Dopo altri dieci minuti di scuse mette subito in chiaro una cosa: “Mettiamo da parte religioni, culture, razze, stereotipi e timidezze. Chiedetemi QUALSIASI cosa vi passi per la testa. Qualsiasi curiosità sul nostro popolo e sulla nostra cultura. L’Isis? Il maiale? Le donne col burka? Perché i marocchini in Italia sono visti così male? Quello che volete! Sono qui per questo! Ma intanto iniziamo con un po’ di storia…”

E così inizia il nostro viaggio. Sia fisico, verso il Deserto, che mentale, alla scoperta di una cultura così diversa dalla nostra.

Intanto attorno a noi schizzano paesaggi sempre più brulli e sempre più vuoti. Grandi distese di sassi e cespugli. Pochissimi alberi. Pochissime persone. Pochissime auto. Qualche piccolo paese, in cui regolarmente ci fermiamo a fare rifornimento di acqua. Anche perché la temperatura sale esponenzialmente. Siamo sempre più vicini alla nostra meta.

Alle 19.00, un’ora prima del tramonto, siamo alle porte del deserto. Sulla strada appaiono cartelli con scritto “Attenzione! Qui inizia il deserto! Non proseguire se, etc…”. Noi ci buttiamo dentro con la nostra Jeep all’impazzata. E all’improvviso, tra un salto e l’altro, ci capita davanti un uomo. Avrà 60 anni. Sta camminando in mezzo al nulla. Verso il nulla. Ci chiede un passaggio verso il campo berbero a cui siamo diretti. Non abbiamo posto e quindi si aggrappa fuori. E proseguiamo. Arriveremo dopo 20 minuti. E io passerò il resto della serata a chiedermi come avrebbe fatto quell’uomo a farsi tutta quella strada a piedi, sotto il sole e con 48 gradi.

La serata si conclude con un giro sul cammello tra le dune al tramonto, la cena con i berberi e la notte sotto le stelle del deserto. Una magia. In un silenzio surreale, ovattato, che quasi sembra un rumore. Il rumore del deserto.

Il giorno dopo sveglia all’alba per fare un po’ di foto sulle dune, nel momento in cui la luce è migliore e il caldo ancora non è soffocante. Poi via di corsa, verso il fresco di Marrakech, con i suoi 42 gradi. Altri 450 km passando per la meravigliosa Kasbah di Ait Ben Addou, dove sono state girate maree di film, tra cui il Gladiatore, e per la Kasbah di Tamegrout, dove da generazioni si lavora l’argilla per produrre le famose tegole verdi utilizzate in tutto il Marocco.

 

La sera arriviamo a Marrakech, che ci accoglie con una cena nella chiassosissima Piazza Jamaa el-Fna, dove ogni sera dalle 19.00 vengono allestite decine e decine di cucine all’aperto, che preparano per tutta la città i piatti della tradizione. Il tutto con una cornice di bancarelle di artigianato, camion che vendono succhi d’arancia a 30cent (4 dirham) e cantastorie che tramandano le storie tradizionali del Marocco. Motivo per cui la Piazza è protetta dall’UNESCO come Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità.

Il giorno seguente non ci resta che perderci all’interno della Medina di Marrakech. Visitando il meraviglioso Palais De Bahia e la Medersa di Ben Youssef, la scuola coranica intrisa di storia e di tradizione. Ogni altra cosa che abbiamo il piacere di vedere ci è stata donata dalla città. Perché nulla è programmabile quando si gira per una Medina. Bisogna solo farsi guidare dall’istinto e saper cogliere ciò che ci si para davanti. Una fontana decorata, un negozio d’antiquariato, una galleria d’arte, un venditore di frutta. Ogni cosa va vista come un dono del Marocco. E va apprezzata come tale.

Il quarto giorno, il primo di Agosto, è giunto il momento di prendere la nostra macchina e cominciare il viaggio vero e proprio. Partiamo in direzione Casablanca, con una sosta subito prima per fare un tuffo nell’oceano e prendere parte a una partita di calcio sulla sabbia: Italia-Marocco. Noi quattro contro quattro ragazzi del posto. Inutile dire chi ha vinto. Loro hanno tanta voglia di correre, ma i piedi buoni sono in Italia!

A Casablanca arriviamo 3 ore prima del tramonto. Giusto in tempo per attraversare la Medina e giungere con calma alla mastodontica Moschea di Hassan II. La moschea bianca sul mare. Uno spettacolo unico a tutte le ore. Noi abbiamo la fortuna di potercela gustare per bene. Prima sotto il sole del pomeriggio. E poi durante un magico tramonto infuocato. L’effetto è unico. Il rumore del mare accompagna questo quadro, in cui i muri decorati della moschea si tingono di rosa grazie alla luce del sole. Uno spettacolo incredibile. Che vale la pausa nella tanto denigrata Casablanca.

La mattina dopo si riparte subito. Abbiamo due tappe importanti. La Capitale del Marocco: Rabat, e l’antica Capitale del Regno di Moulay Ismail ibn Sharif: Meknes. La prima è elegante e pulita. Lo sbocco sul mare e la Kasbah sul porto le donano un fascino unico, che viene coronato dalla meravigliosa Moschea di Hassan II, incompiuta ma comunque magnifica.

La seconda invece, Meknes, risulta molto più piccola e “provinciale”. La Piazza centrale “fa il verso” alla magica Piazza di Marrakech, con bancarelle e ristoranti. Noi ci passiamo solo una serata. Giusto il tempo per mangiare degli spiedini “avvelenati”, che ci regaleranno 24 ore di stomaci ribaltati. Ma d’altronde… si può dire davvero di essere statati in Marocco se non si è stati male per il cibo almeno qualche ora…?

Il giorno dopo, a fatica, si riparte verso nord. Andiamo verso Chefchaouen, la città blu. Da ora in poi non avremo più autostrade sotto le ruote. Solo strade normali. Tutte curve e terra. Ci addentriamo nel vero Marocco!

Chefchaouen è graziosa e magica. Si respira un’atmosfera fiabesca. Tutto è blu. Le case, le porte, le finestre, i terrazzi, i vestiti della gente del posto, i piatti, i bicchieri. Blu cielo. Blu berbero. Blu fatato. I vicoli sono stretti e tortuosi, ma è bello perdercisi, scattando foto a più non posso.

Il 4 Agosto, il giorno dopo, si riparte immediatamente. Dobbiamo rifare un pezzo di strada al contrario, per poi andare verso Est. Verso Fes. La Capitale delle pelli e delle concerie.
Arriviamo in città nel pomeriggio e il caldo è quasi insopportabile. Ci rintaniamo nel nostro ostello per qualche ora, poi nel secondo pomeriggio ci inoltriamo dentro la Medina. Seguendo il nostro fiuto. Che in questo caso è letteralmente fondamentale, perché l’unico modo per trovare le concerie, nascoste tra le case, è seguire la puzza. Che diventa quasi insopportabile quando si arriva sulle terrazze che sovrastano le vasche di colore. Qui ogni giorno più di 300 artigiani lavorano le pelli di capra, pecora, vacca e cammello, per produrre oggetti per tutto il Marocco. Tutto avviene in modo naturale, utilizzando i colori che la Terra ci dona (giallo zafferano, blu indaco, rosso papavero, arancione hennè, marrone cedro e verde menta) e pulendo le pelli con acqua, sale, urina di mucca e guano di piccione. Da qui l’odore forte.

Dopo aver visitato anche una tessitoria e un’erboristeria locale, è giunta l’ora di tornare verso il nostro Ostello. Ed è qui che veniamo notati da un ragazzo locale, mentre cerchiamo di orientarci negli stretti vicoli della Medina. Capisce che siamo in difficoltà e inizia a seguirci, offrendosi poi in maniera insistente di darci una mano. Noi proviamo a rifiutare, sapendo che non è bene affidarsi a questi soggetti, ma siamo evidentemente persi e quindi lui non molla il colpo. Finisce che ci facciamo guidare per qualche isolato, fino a tornare su una strada conosciuta dove riorientarsi, ma nel frattempo un amico della nostra “guida” ci ha raggiunto e si è messo dietro di noi. Siamo circondati. E il primo dei due ragazzi si continua a toccare la tasca. Sospettiamo abbia un coltello. E noi tra macchine fotografiche, telefoni e contanti siamo una bella preda. Quando arriviamo quindi al punto di “rilascio” i due soggetti, come previsto, ci chiedono dei soldi. Noi gli offriamo 20 dirham (2€), ma loro appena vedono che abbiamo più soldi nel portafoglio se li prendono tutti (70 dirham). Noi non opponiamo resistenza alcuna e ce ne andiamo lesti. Fortuna che mentre ci portavano in giro per i vicoli avevamo “nasato” la situazione e i 4000 dirham (400€) che avevamo appena prelevato al bancomat li avevamo nascosti!

Il giorno dopo parte l’ultima fase del nostro viaggio. Ci aspettano quattro giorni di strada per tornare verso Marrakech. 500 km in mezzo alle montagne e alle oasi. Abbiamo diviso il viaggio in tre tappe circa, seguendo anche i consigli del nostro magico Alì. Con l’intento di fermarci a dormire dove capita. Pensando solo a gustarci il panorama e ciò che incontriamo sulla strada. Come le scimmie di Azrou, i prati all’inglese di Ifrane, i mercanti di pietre delle miniere di Midelt, i laghi di Imilchil e le cascate di Ouzud.

Le strade sono incredibili. Facciamo di media i 30km/h perché ogni duecento metri c’è una buca, un dosso, un sasso in mezzo alla strada, un capretto, un asino che trasporta acqua o erbe aromatiche. Ci inerpichiamo su per un mare di montagne. Valichiamo passi arsi dal sole e altri verdi come le Alpi. Ci troviamo su strade dove non si incrocia anima viva per decine di chilometri. Villaggi con case fatte di fango, che vivono solo di ciò che coltivano e che allevano. Paesi senza nessun abitante. Tende berbere lungo i fiumi e le oasi. Ogni chilometro ha qualcosa di incredibile. È impossibile dormire. Siamo sempre con lo sguardo fuori dal finestrino, con in mano le macchine fotografiche pronte a scattare.

Gli ultimi chilometri poi sono la ciliegina sulla torta. Una tempesta di sabbia alle porte di Marrakech. Il vento che incrocia perpendicolarmente la strada. Banchi di sabbia che non fanno vedere a venti metri. Tronchi che volano. Alberi divelti. Gente in moto che non riesce ad andare dritto. Gente a piedi che si ripara dietro a muretti e sassi. Un epilogo epico. Che rende giustizia a un viaggio unico. Un viaggio che ci ha fatto scoprire ogni faccia, ogni angolo, ogni aspetto, ogni sfumatura del Marocco.

Un Marocco diviso tra i pochi ricchissimi e i tanti poveri, che ogni giorno fanno lavori per noi inconcepibili per portarsi a casa la cena. Un Marocco che non ha pietà per nessuno. Dove vince sempre il più furbo, il più abile a farsi valere. Il più forte.

Perché è così, il Marocco. Un posto meraviglioso, abitato da uno dei popoli più furbi della Terra. Come mi ha detto un ragazzo marocchino che ho incontrato in aeroporto prima di tornare in Italia: “Il Marocco è bellissimo. Peccato per i marocchini. Qui o inculi o vieni inculato. Non c’è una via di mezzo. Bisogna farsi furbi se si vuole sopravvivere!”.

 

Articolo e Fotografie di Jacopo Chelli

One thought on “MAROCCO: 3000KM INDIETRO NEL TEMPO

  1. Pingback: FEBBRAIO IN GIRO PER L’EUROPA: ITALIA, SPAGNA, POLONIA E PORTOGALLO | Metro-Polis

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.