RUBRICA ASTROLOGICA – ACQUARIO (parte 1)

  1. Acquario, il segno delle rivoluzioni. Galileo Galilei
  2. Donne acquario.  Virginia Woolf

1_ ACQUARIO

L’Acquario è segno di Aria o di Acqua?

È una domanda che talvolta ci si sente fare quando si parla di astrologia. E la domanda non è del tutto insensata. L’Acquario è il terzo segno d’Aria, ma al tempo stesso il simbolo del segno è il geroglifico egizio che indica l’acqua e in molti zodiaci è rappresentato con l’immagine del portatore d’acqua.
È il segno della libertà, del cambiamento, della ribellione, non a caso il suo pianeta, Urano, viene scoperto nel 1781, nel secolo delle grandi Rivoluzioni.
È il segno della Scienza e della tecnica: tra i nati del segno troviamo grandi scienziati come Galileo1 e Darwin.
Acquario è anche sperimentazione, attacco alle convenzioni. Joyce, Virginia Woolf, Pound, Burroghs sono «sperimentatori del linguaggio» (Pesatori).

2_galileoGalileo Galilei   

«La filosofia2 è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, a conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto.» (Galileo Galilei, Il Saggiatore, 1623)

Galileo è protagonista di primo piano della Rivoluzione Scientifica del Seicento, anzi è ritenuto il “padre” della scienza moderna per i risulti delle sue ricerche, per la diffusione delle nuove teorie astronomiche e, soprattutto, per l’invenzione del metodo scientifico basato sulla ragione e sull’esperienza e svincolato dal principio di autorità.

Anche la forma delle sue opere è, in connessione con il contenuto, decisamente innovativa.

Suo scopo è “rifare i cervelli”, divulgare le sue idee anche oltre la cerchia degli specialisti per una vera e propria rivoluzione nella mentalità.
Sceglie quindi consapevolmente modalità che gli permettano di arrivare ad un pubblico vasto, non vuole rivolgersi solo a specialisti ma a tutte le persone colte e curiose, per questo utilizza la forma del dialogo che non propone una verità statica ma alterna voci in conflitto, mette a confronto personaggi connotati da opinioni diverse.

Anche l’uso del volgare3, in contrapposizione con il latino degli ambienti accademici, è scelta consapevole di battaglia culturale. E la sua prosa è estremamente efficace, il suo stile è conciso e asciutto, molto diverso dal gergo elitario e pomposo degli scienziati del tempo. Continue reading

Natura umana e Street Sharks

Salve sono Luca Ballandi, forse vi ricorderete di me per articoli quali À quoi ça sert le Camembert, o François Truffaut vs Massimo Boldi, lo scontro finale. Finita l’estate, è ora di rimettersi al lavoro e partorire un bell’articolo per questo mese – sì pieno di novità entusiasmanti che, così su due piedi, non saprei proprio elencarvi. Come la cara Erika, che scrive articoli da Copenaghen (e che d’altronde non ho nemmeno mai conosciuto), vi propongo qualche riflessione sulla Francia – e dalla Francia, più precisamente da Lione – riguardanti il modo di “filosofare” tipico dei nostri cugini d’oltralpe. Penso di aver già specificato che i miei talenti letterari difficilmente oltrepassano i limiti posti dalla mia miserabile esistenza, e che il mio malcelato egocentrismo mi spinge a parlare della mia esperienza personale e di me stesso (le due cose più importanti della vita, almeno dal mio punto di vista… … ok, dopo questa penso che la metà dei miei lettori abbia definitivamente deciso di abbandonarmi). Per i pochi che restano, l’ultima volta si parlava di Dissertation, ossia dell’esercizio filosofico più in voga in Francia, nelle Università, Grandes Ecoles, Classes Préparatoires. Per riassumere: invece di fondarsi sul “contrôle de connaissance” – il classico esame “interrogazione” – il sistema educativo francese fa ampio uso di tale esercizio, tanto in filosofia quanto in letteratura, storia, antropologia culturale, etc… Si tratta di un testo strutturato in parties (normalmente tre o quattro), che articola una problematica annunciata dall’Introduzione. In filosofia, la problematica nasce da una riflessione sul soggetto proposto dal prof o dall’istituzione: per esempio, soggetto da liceo: “Bisogna rinunciare all’idea che l’uomo abbia una natura?” [= faut-il renoncer à l’idée que l’homme a une nature?] ; problematica grezza :

  • da un lato, c’è una natura umana in sé inconoscibile – poiché sempre “pensata”, “riflettuta” e “culturalizzata” – che legittima l’idea d’una perfettibilità illimitata dell’uomo (idea moralmente e eticamente auspicabile, perché rende l’umanità trasformabile a piacimento; e tuttavia potenzialmente artificiale, giacché in contrasto sia con l’uomo “empirico” sia con quello descritto dalle scienze naturali);
  • dall’altro, c’è la datità biologico-evolutiva dell’uomo – presumibile dietro ogni condizionamento culturale e sociale – e l’idea d’una perfettibilità limitata (parimenti auspicabile, perché alla base d’una morale e un’etica pragmatica e empirica; e tuttavia potenzialmente sterile, poiché impedisce all’uomo d’esser padrone di sé stesso e del suo destino).

Si tratta di riflettere sulle relazioni problematiche che legano 1) un’ontologia realista e un’epistemologia monista – a cui può connettersi un approccio etico, morale e politico pragmatico all’uomo; 2) un’ontologia intellettualista (o idealista) e un’epistemologia dualista – a cui corrisponde un approccio etico, morale e politico teorico-idealista. In soldoni (problematica possibile) bisogna articolare una perfettibilità ideale che riposa sul “tutto è umano” e umanizza tutto (estremo inaccettabile, poiché annienta l’uomo), a una non-perfettibilità pragmatica che riposa sul “tutto è natura” e naturalizza tutto (parimenti inaccettabile, per lo stesso motivo). [AVVERTENZA! la problématisation da me proposta è proprio da quattro soldi; nel senso, qualsiasi prof di méthodologie avrebbe orrore d’un tale trattamento del soggetto, poiché “trop superficiel”]. Continue reading

Guida scientifica per la sopravvivenza al complottismo post-moderno

Sul treno, al bar, in autobus, dalla parrucchiera, negli spogliatoi della palestra:

«Il mondo sta andando a rotoli, non vedete? Inquiniamo, uccidiamo tutto, e moriamo sempre più spesso di tumori e altre malattie che in passato i nostri bis-nonni non hanno mai avuto!»

Chi di noi non ha mai sentito pronunciare frasi simili da un amico o un conoscente? Una di quelle affermazioni che tutti prima o poi sentiamo, o che noi stessi pronunciamo. Quelle frasi al limite del complottismo e del catastrofismo che alla fine tanto ci piacciono e ci attraggono. E lo ammetto, faccio io stessa pubblica ammenda: le teorie complottiste mi affascinano. Ma a parte l’iniziale stupore, e magari qualche lontano fondo di verità, comprendo perché riscontrino tanto successo nell’opinione pubblica. L’uomo ama incolpare qualcuno dei propri sbagli. E urlare al complotto è un ottimo modo per sollevare dalla propria coscienza qualsiasi briciolo di colpevolezza. Ma alla fine è davvero tutto qui? L’uomo ha creato solo catastrofi, genocidi, estinzioni, inquinamento? Certo la storia è costellata di fatti terribili. Quindi ammettiamolo: l’uomo non sempre agisce per il meglio, come abbiamo già detto nei mesi precedenti durante la nostra escursione nei risvolti sanguinosi della Scienza. Mostratasi solo nei suoi risvolti più cupi, stavolta la Scienza si presenterà nel suo lato più rassicurante. Questo mese il viaggio sarà diverso. Perché si è sposati e si ama “nel bene e nel male, in buona e in cattiva sorte”. E stavolta il viaggio sarà nella “buona sorte”. Già, perché la Scienza ci ha dato un ottimo argomento con cui controbattere anche ai più “miscredenti”. Ora immaginate… immaginate di essere nati 200 anni fa. Innanzitutto mi spiace ma io non sarei qui a guidarvi in questo viaggio temporale: in quanto donna sarei stata estromessa dagli studi scientifici, mondo considerato allora prettamente maschile; in più sarei certamente morta alla giovane età di 18 anni per un’infezione alla gola sfociata, senza antibiotici, in setticemia. Ma non rattristatevi troppo, sarei stata in buona compagnia: circa un terzo dei lettori di questo blog sarebbe morto alla nascita o nei primi dieci anni di vita, un altro terzo non avrebbe toccato i 30 anni di età, e i restanti sarebbero arrivati a fatica a 50 anni, con qualche fortunato a 70. Infatti nel 1810 l’aspettativa di vita media era di 40 anni, con qualche punta a 50 anni in alcune regioni del Regno Unito e dei Paesi Bassi. Durante il corso del XIX secolo le speranze di vita iniziarono a salire, incoraggiate dalla rivoluzione industriale, dalla crescente occupazione, dalla dieta più ricca, arrivando “addirittura” a poco più di 50 anni di età. Fino ad oggi: l’Italia è il quarto paese a livello mondiale per aspettativa di vita. I nostri 82 anni (in continua crescita) sono infatti al di sotto solo di Giappone, Macao e Andorra (84, 82 e 83 rispettivamente). Quindi ecco il primo, ottimo, punto con cui controbattere a complottisti e detrattori della Scienza: tutti noi oggi siamo in grado di vivere in media quarant’anni in più rispetto ai nostri trisnonni. E se vi sembra poco, provate a pensare da quante migliaia di anni l’uomo vive sulla Terra: la nostra comparsa nell’ecosistema Terra è datata circa a 250.000 anni fa, e in soli 200 anni l’aspettativa di vita è raddoppiata, toccando vette mai raggiunte prima nella storia. E questo repentino miglioramento nell’aspettativa di vita è dovuto a scoperte essenziali, che oggi diamo per scontate. Continue reading

Il lato oscuro della scienza: parte II. Gli abomini del ‘900.

– “Ciao, sono Martina.”

– “Ciao Martina.”

– “E sono dipendente dai telefilm”.

Ebbene sì, sono affetta da una grave forma di telefilm-dipendenza. O almeno lo ero. Già, perché ora la mia vita da pendolare-dottoranda colpita da stanchezza cronica e stakanovismo ossessivo-compulsivo limita la mia telefilm-dipendenza. Perciò, come nelle peggiori dipendenze, non ho fatto altro che sostituire l’oggetto del desiderio: dai telefilm alla scienza. E da lì a una rubrica scientifica a puntate il passo è breve. Da qui l’idea di iniziare un viaggio all’interno del lato più angosciante, eticamente inammissibile e riprovevole della scienza. Tra omicidi e ibridi antropomorfi del mese passato, questo mese ci muoviamo tra i deplorevoli ed aberranti esperimenti di massa dell’ultimo secolo, per il secondo e ultimo appuntamento sui retroscena più agghiaccianti del mondo scientifico.
Tutti conosciamo la sorte sventurata della famiglia Kennedy: gli attentati, gli incidenti aerei, le droghe e l’alcohol hanno lasciato non poche macchie nella genealogia della famiglia più amata d’America. Scomparse premature, casuali o premeditate; in un caso una scomparsa voluta dallo stesso patriarca Joseph Kennedy. Tra i tanti rami spezzati della famiglia, uno è ai più sconosciuto. Una scoria da nascondere sotto il tappeto insieme alla polvere: Rosemary Kennedy, sorella del presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, e figlia di Joseph. Rimossa dalla storia con un taglio di bisturi. Creativa, esuberante, libertina. O meglio, troppo libertina per il padre. Che per non minare la carriera dei fratelli, le troncò ogni appetito sessuale ed esuberanza con una lobotomia. Rosemary è solo un’esponente di spicco delle tante vittime di questa pratica, barbaramente messa in atto tra gli anni ’40 e la fine degli anni ’70 in tutti i paesi “civilizzati”: spacciata come cura per ogni malattia e disagio psicologico, in realtà operata per spezzare la voce di chiunque lottasse per una diversità. Di pensiero. Di sessualità. Di concezione della vita. Non solo oltreoceano, ma anche più vicino a noi: la maggior parte dei manicomi lobotomizzava i pazienti, spesso appositamente dimenticati dalle famiglie. E tra i lobotomizzatori di spicco, il Dott. Walter Freeman Jr. era certamente il più conosciuto. Di tale pratica fece un’attività economica redditizia, viaggiando per gli Stati Uniti e lobotomizzando, per una lauta ricompensa, chiunque fosse condotto al suo cospetto.

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Il lato oscuro della Scienza: parte I. Tra ibridi uomo-animale e omicidi.

Aprire Facebook. Guardare la home. Scorrere tra le notizie. Vedere foto, stati, qualche articolo giornalistico, qualche blog. Ormai tutti, chi più raramente chi più volte al giorno, facciamo queste azioni. Fanno parte della nostra voglia di sentirci collegati, parte di un grande mondo. Sentirci un po’ meno piccoli. Facebook è una di quelle scorie della democrazia che ho citato nel mio precedente intervento: come tutti i social network è una fonte preziosa per esprimere il proprio pensiero, diffondere idee. Già: diffonderle nel bene e nel male. Perché le idee non sono sempre preziose o buone. Alcune possono essere più deleterie di un termitaio nelle fondamenta di una casa di legno. Una di quelle scocciature che si notano solo quando il danno è ormai evidente.
Ultimamente, cercando tra i termitai che si celano dietro Internet, ho trovato numerose notizie su moderni esperimenti terribili, cruenti, eticamente inaccettabili. Esperimenti che farebbero rabbrividire persino Mengele. Chiaramente si tratta di fatti inventati, partoriti dalla mente complottista di qualche autore a digiuno di scienza (o forse semplicemente allergico alla realtà). Dopo una sana risata iniziale, ho però percepito il sinistro tocco delle zampette biancastre della termite, che dal computer ha risalito la mia mano, il braccio, la spalla, fino ad entrare nell’orecchio. E il termitaio era ormai anche nella mia mente: e se la scienza non fosse buona? Se fosse una dichiarazione spavalda di superbia umana incontrollata? Chiaramente la risposta razionale è no: la scienza nasce per cercare di conoscere il mondo, per inseguire un equilibrio tra creato e uomo, e non per offrire un campo d’azione a sadici e pazzi. Ma siamo poi così certi non nasconda nessun angolo buio? Continue reading

Scienza, con e senza “i”: libretto d’istruzioni per aspiranti Dott. Frankenstein/Frankenstine

Breve excursus iniziale. Una ventina di anni fa. Una bambina gracilina e taciturna:

-“Martina, che cosa vuoi fare da grande?”

-“La veterinaria”

“La veterinaria” era la risposta standard. O meglio, la mia risposta standard. Sì, perché mentre le altre bambine volevano fare le ballerine, le maestre, i medici, io pensavo già che la mia strada sarebbe stata un’altra. Questa convinzione nasceva dall’equazione semplicistica del “amo ogni animale quindi voglio diventare veterinaria”. È semplice: nella mia testolina quella convinzione era la più lineare che avessi mai avuto. 2+2= 4 . Poi crescendo si scopre che non sempre 2+2 fa 4, anzi di solito fa 4 solo una volta su mille (i matematici e gli ingegneri staranno già inveendo contro di me, ma passatemi questa licenza poetica). Il mio caso non è quella volta su mille: veterinaria non lo sono diventata. Ho scelto un’altra strada, parallela agli studi di medicina veterinaria, più improntata all’allevamento degli animali d’affezione, all’igiene dei prodotti di origine animale. E alla genetica, il mio grande amore.Scienza

Premetto perciò che mi violenterò il più possibile, cercando di nascondere il mio punto di vista da Dott. Frankenstein alle prime armi, e tralascerò le mie visioni personali in favore di una rubrica il più possibile neutrale.

Iniziamo.

Scienza. Già soltanto sulla grammatica di questo sostantivo si potrebbe scrivere un libro. Per tutti noi, alle scuole elementari, è stata fonte di disprezzo e di difficoltà. Conoscere, scelta, sceriffo, scettro, scena. E poi scienza, con quella maledetta “i”. A quanti non è successo almeno una volta nei primi anni di scuola di pensare: “ma scienza va con o senza i?”. Dilemma del tutto simile è quello di “coscienza”. E quell’ostilità è rimasta sedimentata in noi. Non è forse un caso che sia la coscienza che la scienza siano campi di azione tanto ostici per l’umanità (colpa forse di quella “i”?). Continue reading