di Francesco Colombrita
Ogni narrazione prevede una soglia da oltrepassare, con la compagnia di una voce, un gesto, oltre la quale si smarrisce la certezza del dove e del quando, e si rimane in balia dell’ignoto. In questi termini è un atto di fede. Occorre qualcuno che apra quella porta dietro la quale si assiste all’inimmaginabile per poi essere scagliati via a voce spenta, a libro chiuso.
I racconti osano chiedere ancora di più dal lettore, che appena appena adagiato viene invitato verso l’uscita. Occorre grande maestria perchè rimangano impressi volti e pensieri di chi ha percorso appena una manciata di righe. Anita Desai ha abilità da vendere. Questa raccolta di tre racconti trascina in un’India remota eppure non così lontana, sulla soglia del mistero e del simbolismo, come a nascondere dietro un vetro quel che accade un po’ più in là. Un museo dimenticato, una traduttrice che trascende il proprio dovere e un ragazzo la cui crescita si conclude in anni passati da eremita sulle montagne. Sono veri e propri affreschi, dipinti sornioni, quelli che si osservano ed emergono dall’inchiostro di queste pagine. Una scrittura vivida, colorata e lucente che merita proprio quell’atto di fede.