VOGLIAMO TORNARE AL PIÙ PRESTO ALLA VITA DI PRIMA?

Oppure, visti i risultati, non conviene forse cercare altre strade?

di Angelo Errani

«Un’osservazione valida per produttori e consumatori: essi non sono più spiritualmente all’altezza della sovradimensione degli effetti da loro prodotti. Ma questo vale anche per le vittime: mentre i produttori non potevano più prevedere il danno che causavano, le vittime non potevano più ricordare il danno che era stato fatto loro» (Anders G.,1991,p.80)

A trent’anni di distanza, con le giornate scandite dalla conta delle morti per covid, per le guerre, per i naufragi lungo la rotta libica o per il gelo nei boschi della rotta balcanica, la riflessione dello studioso si rivela profetica.

Dovunque riteniamo di poterci collocare, fra i produttori o fra i consumatori, siamo comunque immersi nell’esperienza di un limite epocale. Dobbiamo onestamente riconoscere che non siamo più in grado di controllare la potenza dei mezzi che noi stessi abbiamo attivato né di prevederne gli effetti sul futuro, avendo oltretutto smarrito la memoria delle cause e del percorso che ci ha portato fin qui.

Proviamo a far riaffiorare questa memoria, riconoscendo che abbiamo vissuto nell’illusione che lo sviluppo potesse non avere limiti e di aver sempre considerato il limite come una minaccia al progresso e al piacere di nuovi consumi. Ci siamo così ritrovati, come mai nella storia, sommersi dal limite e immersi nella paura. Ma la paura, pur con le sue buone ragioni, non responsabilizza. Anzi, la paura, pur silenziosamente, invita a ritirarsi scoraggiati e, senza che ce ne accorgiamo, a diventare complici, perché pensiamo che, di fronte all’enormità degli eventi, nulla può dipendere da noi.

È sul filo di queste riflessioni che ho incontrato il contributo di Marco Orsi Educare ad una cittadinanza responsabile. L’autore propone di provare a riconsiderare la rappresentazione comune del limite come categoria negativa e di individuare nel limite che abbiamo involontariamente incontrato una preziosa occasione per ripensare il concetto di sviluppo.

Dal limite ecologico può infatti nascere la coscienza della responsabilità e dal limite sociale la consapevolezza della necessità della solidarietà.

Anche l’etimologia della parola ci aiuta a capire il ribaltamento che è stato fatto del suo significato.

limes, nella lingua latina, indicava il sentiero che faceva da confine fra i campi. Non richiamava dunque l’immagine di un ostacolo, ma quello di una regola, di un controllo contro l’espansione illimitata del più forte e, quindi, il riconoscimento del rispetto verso gli altri. Limen indicava poi la soglia di casa, la dimora che oggi, nell’epoca della globalizzazione, scopriamo essere la casa comune del pianeta in cui viviamo.

«Così inteso, il limite, non impedisce ma regola, non imbriglia ma favorisce e orienta la scienza e la tecnica».(Orsi M.,1998, Bologna, EMI).

Questa consapevolezza riguardo al limite richiama la necessità di verificare la fondatezza delle nostre certezze ed educarci, ed educare, a regole coerenti con le attuali possibilità e rischi dell’esistenza. Nel passato potevamo permetterci di imparare per prove ed errori, oggi abbiamo scoperto che la potenza dei mezzi è tale che sbagliare potrebbe non consentire un secondo appello.

Se continueremo a pensare che l’economia vada regolata solo dal mercato (liberismo) e la storia da accadimenti necessari (storicismo) non ci resterà che far da spettatori. È evidente che il venir meno delle certezze che ci hanno accompagnato fin qui ci provochi insicurezza, ma ci offre anche libertà dai pericolosi pregiudizi di cui stiamo purtroppo sperimentando le conseguenze e ci impegna nell’assunzione di responsabilità, cioè nel comportarci assumendo gli effetti delle nostre azioni come nostri.

La responsabilità di ciascuno è definita dal contesto in cui ciascuno di noi si è trovato a vivere. Chi, come alcuni di noi, ha vissuto la propria realizzazione professionale nella scuola, ha avuto l’opportunità di scoprire che: «la responsabilità è la cura di un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando apprensione nel caso in cui venga minacciata la vulnerabilità di quell’essere» (Jonas H, 1993, p.285).

Il parametro che lo studioso adotta per far comprendere ciò che fonda la responsabilità umana è quello che possiamo osservare nella relazione fra madre e bambino. Il lattante può vivere solo grazie alle cure della madre, la quale sente questa responsabilità come dovere, ma vive anche l’attesa che tale responsabilità venga ripagata dalla crescita del bambino. La fragilità dell’altro offre quindi uno scopo e un senso al nostro agire. La fragilità di chi nei nostri contesti di vita sta crescendo in questi nostri anni è provocata da una cultura che suggerisce loro il bisogno di una quantità sempre crescente di cose di cui vengono poi invitati a disfarsi il più presto possibile per sostituirle con altre. Viene così svilito il valore delle cose, della materia che le costituisce e del lavoro necessario per produrle. Una cultura che ha come parametri l’assenza di limiti e l’irresponsabilità. Occuparci di questa fragilità può aiuitarci a ritrovare un orizzonte di senso condiviso, noi e loro.

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