Recensione: ALIENS – Scontro finale

‘Dopo cinquantasette anni, la scialuppa spaziale di salvataggio dove il sergente Ripley è in stato di iper-sonno, viene ripescata da una compagnia di un carico commerciale. Una volta risvegliatasi dovrà indagare – insieme a un gruppo di marines – sul pianeta LB 426… la cui colonia non da più segni di vita e affrontare di nuovo la forma xenomorfa aliena, questa volta iper-moltiplicatasi’.

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Aliens – Scontro Finale è un film di genere fantascientifico del 1986, diretto da James Cameron; si tratta del secondo capitolo della saga Sci-Fi creata nel 1979 da Ridley Scott con il film capolavoro, il capostipite Alien. La vicenda, quindi, riparte da dove avevamo lasciato Ripley 57 anni prima: dalla scialuppa spaziale nella quale aveva trovato rifugio dalla creatura aliena xenomorfa dopo l’auto-esplosione dell’Astronave da carico Nostromo.

-1981- Ronald Reagan ha preso il posto di Jimmy Carter alla Casa Bianca… ed ecco che, all’inizio degli anni ’80, riesplode in tutto il mondo occidentale (e non solo) la forza dirompente della “cultura” a stelle e strisce: quindi il riflusso di sobrietà del disastro imperialistico post-Vietnam non solo viene accantonato… ma si assiste, addirittura, a una rinascita del peggior spirito colonialistico/imperialista in seno agli Stati Uniti d’America; da un lato le campagne di guerra, di colonizzazione e di terrore sull’intero globo: in Asia, in Medioriente e – in particolar modo – in America Latina atte a rinforzare le sanguinarie dittature militari e liberiste di destra filo-Usa (Brasile, Argentina, El Salvador, Venezuela, Honduras…); dall’altro, invece, si assisterà a un’incredibile opera di propaganda, da parte dei media e di Hollywood stessa, incentrata sull’inculcamento (moderato e per gradi..) delle masse di questo chiaro e semplice concetto: gli Stati Uniti d’America sono la gendarmeria del mondo, il cui nobile scopo ultimo è la normalizzazione e la “democraticizzazione” (sotto esclusivi standard americani) dell’intero pianeta.

Aliens – Scontro Finale si pone nel mezzo temporale anni ’80 di questa “opera” (ancora attualmente in atto, dopo quasi 35 anni…) e ne contrae buona parte delle peculiarità e degli elementi… anche se, fortunatamente, solo in parte.

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Cent’anni di solitudine – Gabriel GarcÍa Márquez

Immagino questo spazio come l’occasione per parlare ogni mese di un libro. Non di un libro semplicemente letto, ma di un libro che sento di aver, per qualche motivo, profondamente vissuto. Non ho certamente l’ambizione di scrivere recensioni di testi che in molti casi sono già unanimemente considerati dei pilastri della letteratura, ma di cercare di esprimere cosa ci ho trovato, di far emergere gli elementi che più mi hanno fatto riflettere, quali emozioni mi hanno suscitato, provando così a mescolare il piano oggettivo della storia raccontata con il suo piano soggettivo e magari incuriosendo chi in quel volume non è ancora “inciampato”. Credo che, in fondo, ogni libro sia non solo il prodotto del suo autore, ma anche di chi lo legge.
Raramente scelgo un libro scorrendone prima la trama. Mi lascio piuttosto affascinare dal suo titolo o, in modo assai più superficiale, dalla sua copertina, cercando di non farmi influenzare dalle opinioni comuni che lo accompagnano, sia esso considerato un “classico” o meno. Questo per non rovinarmi la sorpresa dei suoi contenuti, ma permettermi al contrario di stupirmi e, in alcuni casi, anche di farmi portare fuori strada. Credo che sia stato questo il motivo per cui ho a lungo rimandato la lettura di Cent’anni di solitudine, un titolo (diciamolo pure) di per sé non particolarmente accattivante o promettente, che mi faceva pensare a una storia deprimente e stilisticamente pesante. Quando ho finalmente deciso di iniziare la lettura, perché sentivo che era venuto il momento, mi sono immediatamente resa conto di quanto fossero sbagliati i miei pregiudizi. Ma, forse, è stato proprio il fatto di ritrovarmi davanti a una storia del tutto diversa da come me l’aspettavo che mi ha completamente rapita e affascinata.
Anche solo tentare di riassumere i fatti di questa storia così complessa e surreale è un compito non facile. Le vicende e le avventure delle diverse generazioni della famiglia Buendía, i cui capostipiti José Arcadio e Ursula sono tra i fondatori dell’immaginaria cittadina di Macondo, si susseguono a un ritmo vertiginoso e incalzante, non lasciando al lettore neppure una pausa per riprendere fiato. Sono bastati pochi capitoli per farmi venire in mente un’immagine ben precisa che riesce per me, più di ogni parola, a dare un’idea della storia: l’immagine di una giostra.

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L’amore non basta: Il metodo delle costellazioni famigliari

‹‹L’amore non basta››: questo il suggestivo titolo dell’Aperitivo a Tema di Metro-Polis svoltosi il 29/03/2014 presso la Sala Civica “Il Cubo” (Quartiere Navile – Bologna). È stata nostra ospite Daniela Iacchelli , psicologa e psicoterapeuta, la quale ci ha presentato il metodo psicoterapeutico delle Costellazioni Familiari .
Tale approccio venne teorizzato, a partire dal 1980 e successivamente rielaborato nel corso della propria vita, da Bert HellingerBert Hellinger : psicologo e scrittore tedesco, studioso di teologia e pedagogia ed ex sacerdote presso un ordine religioso cattolico. Hellinger si avvicina alla psicoanalisi nel 1969, tornato a Vienna dopo aver abbandonato il sacerdozio: entra in analisi e legge integralmente l’opera di Sigmund Freud. Importante, nella formazione di questo autore, sarà proprio il distacco dalla comunità psicoanalitica viennese: un allontanamento fisico e concettuale che gli permetterà di aprirsi e di rendersi disponibile all’incontro con molteplici e variegate realtà teorico-terapeutiche .

Il metodo delle Costellazioni Familiari è un approccio sistemico e, come tale, poggia sull’assunzione teorica per cui ogni nucleo familiare (passato o attuale) sia necessariamente un sistema in grado di informare l’individuo circa le proprie dinamiche interne. Ognuno di noi, quindi, non solo vive e agisce all’interno di un sistema familiare, ma ne è intimamente condizionato: possiamo farci carico, inconsciamente, di esperienze inerenti a dinamiche familiari passate, vivendo un destino che non ci appartiene; oppure possiamo non aver accettato e rielaborato lutti, abbandoni, situazioni difficili da digerire o, ancora, molto più semplicemente, abbiamo difficoltà a rendere intelligibili alcune dinamiche relazionali agite all’interno del sistema-famiglia. Continue reading

‘Il racconto dei racconti’

“Un piccolo lupetto viene lasciato solo nel bosco in cui vive da quando è venuto al mondo..attraverso un flusso ininterrotto di immagini liriche ed oniriche scopriamo la sua storia e il suo modo di approcciarsi al mondo e al ‘nuovo’ che avanza..”

Il racconto dei racconti è un cortometraggio di animazione del 1979, diretto da regista russo Jurij Norštejn.

10002651_10202053626243251_200501008_nI sentieri che vengono percorsi nei sogni, quando siamo bambini, si presentano ignoti e sconosciuti ai nostri occhi; nelle fasi di non-tempo in cui girovaghiamo meravigliati e affascinati per quei sentieri, sentiamo dentro di noi l’innocenza e la purezza nello scoprire che siamo ancora in grado di gioire, di commuoverci, di straziarci e di innamorarci di fronte al fluire eterno degli eventi e delle cose: ed è pura Poesia.
L’ignaro, innocente e tenerissimo lupetto si comporta (è) come un bambino in un sogno; il bambino reale, quello sveglio e (in)cosciente, è già disilluso, vuoto, colluso e inghiottito nella moltitudine superficiale, letale e amorfa di certo ‘collettivismo’ che tutto è fuorchè puramente ‘umano’: un piccolo uomo totalmente cavo e inutile, un ottimo contenitore di false ‘umanerie’. Continue reading

‘In the room’ di Francesca Cesari

‹‹La dimensione appartata e silenziosa del luogo in cui una madre addormenta il bambino attraverso l’allattamento al seno››[1] è quello spazio intimo e universale in cui ci ha condotto Francesca Cesari[2], ospite di uno degli ultimi Aperitivi a Tema di Metro-Polis.
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La dinamica che s’instaura tra madre e figlio sostanzia un luogo che è al contempo alterità insopprimibile e domestica prossimità: un nodo che “In the room”[3] non pretende di sciogliere, bensì di cogliere in tutta la sua dirompente autenticità. Una dimensione quasi metafisica, quindi, che respira di quell’anelito alla sacralità tipico di alcune rappresentazioni pittoriche; eppure una dimensione che qualifica una realtà autenticamente intima, sfuggevole ad ogni definizione, esclusiva. Al di la di ogni irrigidita sostanza, questi scatti catturano la natura di un rapporto, di un dialogo a due che vive del silenzio dell’abbandono: un sentirsi, quello tra madre e figlio, ogni volta differente, mutevole per ogni coppia di soggetti, frutto di dinamismi che possiamo sbirciare ma che non possiamo rendere completamente intelligibili. Come per i limoni di Montale[4], ci è concesso giusto rubare un qualche istante di questo esclusivo rapporto, dobbiamo saziarci del giallo odore di un frutto che in nessun caso possiamo veramente afferrare: come bambini non abbiamo ricordo nitido di questa dimensione, come madri non la possiamo spiegare; meraviglioso paradosso. Continue reading

Recensione: Alien


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 “Sull’astronave da carico Nostromo, le sette persone dell’equipaggio si svegliano dall”iper-sonno’ per controllare quello che sembra un messaggio di soccorso di natura ignota. Il capitano, seguito dai suoi uomini, atterra sul pianeta desolato LV-426 che sembra ospitare solo un’astronave impattata al suolo; una forma di vita aliena riesce comunque ad insinuarsi all’interno dell’astronave e comincia a mietere terrore e morte tra i membri dell’equipaggio…”

Alien è un film di fantascienza del 1979 diretto dal regista Ridley Scott alla sua seconda prova cinematografica dopo l’esordio scoppiettante del bellissimo e curatissimo I Duellanti uscito nelle sale due anni addietro, nel 1977.

Alien lo si può considerare, a tutti gli effetti, un autentico capolavoro di suspense e horror fantascientifico; i vertici di tensione, inquietudine, ansia, terrore e angoscia raggiunti in questo film rappresentano ancora oggi un unicum nella cinematografia di genere e non solo.

La pellicola risulta scorrevole perché svolge visivamente bene sia le tecniche dell’inseguimento a sorpresa che quelle della mobilità psichica in tensione dei personaggi. Lo sfondo scenico è segnato da una disperazione lucida; lucidità innescata coerentemente dalla reazione alla paura estrema presente nei protagonisti. Il film nel suo ritmo visivo non dà pause: a emozioni claustrofobiche e fobiche costruite nel chiuso ‘labirintico’ dell’astronave si alternano timori dell’ignoto cadenzati dall’irrompere di figure e presenze stranianti. Emozioni messe in gioco abilmente dal regista in relazione con lo sviluppo delle normali attese e speranze di lieto fine. Continue reading