Una chioma rossa spuntava dal terreno, tra le pietre e i calcinacci della demolizione del convento di Santa Clara. Ad osservare questo demoniaco miracolo un giovane reporter guardingo, che non dimenticherà mai le ultime vestigia di una suora scomparsa dalla storia, e la sua lapide, incisa da mani sapienti, indicante il nome di questo spettro: Sierva Maria de Todos los Angels. Molti anni dopo, almeno cento e solitari si direbbe, la memoria dello scrittore riaffiora e si fa lucida al punto da ricreare tra immaginario e visione la storia che riemergendo dalla polvere pretendeva di essere raccontata. “La bambina, figlia di un nobile e di una plebea, ebbe un’infanzia da orfana. La madre la odiò fin dal momento in cui l’allattò per l’unica volta, e rifiutò di tenerla con sé, per timore di ucciderla”. Continue reading
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Il libro che mi ha cambiato la vita
‹‹Quando leggiamo, ci portiamo dietro le nostre origini:queste origini danno un valore, una cadenza, aggiungono un significato. È giusto che sia così: un libro non è soltanto i significati che comunica, ma i significati che vi aggiungiamo, garantiti, se non dalla correttezza intellettuale, dall’intensità del sentimento, dell’emozione, dell’affetto.
Il libro vero, quello con cui si dialoga più volte, al quale si ritorna, non conferma delle verità, ne offre di nuove, purché ci sia da parte nostra fedeltà e non conformismo, e resti viva la curiosità, il desiderio di ascoltare qualcuno che parla del nostro presente, al momento giusto. Perché il libro vero parla sempre al momento giusto: lo inventa lui, il momento giusto: con il colore della parola, con la singolarità della battuta, con il piacere della scrittura. Un libro vero va amato: lo si rilegge come si fa visita a un amico, ricordando insieme il passato e, nel ricordo del passato, celebrando il rapporto vivo col presente››.1
Con le parole di Ezio Raimondi2, Rosalba Granata e Daniela Zani3 hanno introdotto l’aperitivo a tema di Metro-Polis del 16/04/2014, svoltosi presso il Centro Sociale Anziani Giorgio Costa (Quartiere Porto – Bologna), e avente per titolo: Il libro che mi ha cambiato la vita.
Cent’anni di solitudine – Gabriel GarcÍa Márquez
Immagino questo spazio come l’occasione per parlare ogni mese di un libro. Non di un libro semplicemente letto, ma di un libro che sento di aver, per qualche motivo, profondamente vissuto. Non ho certamente l’ambizione di scrivere recensioni di testi che in molti casi sono già unanimemente considerati dei pilastri della letteratura, ma di cercare di esprimere cosa ci ho trovato, di far emergere gli elementi che più mi hanno fatto riflettere, quali emozioni mi hanno suscitato, provando così a mescolare il piano oggettivo della storia raccontata con il suo piano soggettivo e magari incuriosendo chi in quel volume non è ancora “inciampato”. Credo che, in fondo, ogni libro sia non solo il prodotto del suo autore, ma anche di chi lo legge.
Raramente scelgo un libro scorrendone prima la trama. Mi lascio piuttosto affascinare dal suo titolo o, in modo assai più superficiale, dalla sua copertina, cercando di non farmi influenzare dalle opinioni comuni che lo accompagnano, sia esso considerato un “classico” o meno. Questo per non rovinarmi la sorpresa dei suoi contenuti, ma permettermi al contrario di stupirmi e, in alcuni casi, anche di farmi portare fuori strada. Credo che sia stato questo il motivo per cui ho a lungo rimandato la lettura di Cent’anni di solitudine, un titolo (diciamolo pure) di per sé non particolarmente accattivante o promettente, che mi faceva pensare a una storia deprimente e stilisticamente pesante. Quando ho finalmente deciso di iniziare la lettura, perché sentivo che era venuto il momento, mi sono immediatamente resa conto di quanto fossero sbagliati i miei pregiudizi. Ma, forse, è stato proprio il fatto di ritrovarmi davanti a una storia del tutto diversa da come me l’aspettavo che mi ha completamente rapita e affascinata.
Anche solo tentare di riassumere i fatti di questa storia così complessa e surreale è un compito non facile. Le vicende e le avventure delle diverse generazioni della famiglia Buendía, i cui capostipiti José Arcadio e Ursula sono tra i fondatori dell’immaginaria cittadina di Macondo, si susseguono a un ritmo vertiginoso e incalzante, non lasciando al lettore neppure una pausa per riprendere fiato. Sono bastati pochi capitoli per farmi venire in mente un’immagine ben precisa che riesce per me, più di ogni parola, a dare un’idea della storia: l’immagine di una giostra.